“La pelle” di Curzio Malaparte

di / 26 gennaio 2011

Ripubblicato con Adelphi il libro forse più conosciuto, complesso e criticato di Curzio Malaparte: La pelle.

I furori giovanili avevano portato Malaparte ad estrapolare un evento singolo della prima guerra mondiale, i fatti di Caporetto, per analizzarne la portata politica, sociale; la seconda guerra mondiale è il pretesto per allargare il proprio sguardo, prima con Kaputt poi con La pelle, non tanto sulle macerie ma sull’idea stessa di civiltà occidentale.

Non è un caso che il cammino intrapreso risulti ostico proprio per il realismo in cui l’autore si muove: la materia è quanto mai dolorosa perché obbliga il ripiegamento su una ferita apertissima, un luogo oscuro e tenebroso da cui si dovrebbe voler fuggire.

Kaputt a conti fatti è un diario di guerra «orribilmente crudele e allegro» che lentamente scorre come una macchina da presa sui luoghi delle battaglie, sulla desolazione delle campagne, sulla miseria umana. In perfetto equilibrio tra la rappresentazione viva del paesaggio bellico e l’urgenza di soffocare il proprio grido di dolore penetra alle pagine del libro un costante sentimento panico di lotta. Uomini, animali, macchine l’uno contro l’altro accomunati dallo stesso destino di angoscia, patimento, morte.

La breve, laconica, rigida parola germanica che dà il nome all’opera gioca sui diversi significati – l’ebraico Kopparoth, vittima, e il francese Capot, cappotto (nel senso usato dai giocatori di carte) – fino a ricondurre a un senso di rottura e rovina.

L’Europa è Kaputt, i popoli e gli uomini sopravvissuti sono Kaputt, la coscienza collettiva è Kaputt. La guerra devasta e porta via tutto, l’incubo del disfacimento trionfa su ogni possibilità di redenzione.

Kaputt è un libro crudele perché parla di una crudeltà vera, reale, quella derivata dall’esperienza di una europa ferita a morte dalla guerra.

I popoli e le nazioni sono accomunati dallo stesso odore acre del sangue, dagli stessi stimoli, dalla fame, dalla sete. È una europa sporca, mutilata, deformata.

Kaputt significa quindi: spaccato, morente, finito, marcio, fatto a pezzi. E non è L’Europa vivente del 1923 ma un mostro portato  allo sfinimento:

Potrebbe dare il senso di ciò che noi siamo, di ciò che ormai è l’Europa: un mucchio di rottami.

Malaparte si fa portavoce di questa miseria, racconta la propria vicenda, il suo continuo peregrinare tra un luogo e l’altro del continente. Le fughe e le soste in paesi remoti, le città e i villaggi rasi al suolo dalla furia bellica, l’odore ferino degli animali morti e l’odore sporco del sesso di donne costrette a prostituirsi, il sapore forte della terra bruciata, il fortore delle lamiere, le urla di paura e di panico delle genti di fronte al fuoco e alla folle bestialità degli eserciti nazisti.

Protagonista del libro non è la guerra ma siamo noi stessi, ovvero ciascun uomo – di ogni razza, sesso e religione – che con le proprie miserie e le proprie illusioni vive e agisce all’interno del racconto. Tutto è in decomposizione e noi siamo parte integrante del processo in atto, un vortice che trascina con sé ogni antica certezza, ogni realtà e ogni regime definito. E così come carcasse di carogne abbandonate anche gli ultimi ritratti dei regnanti europei assumono il sapore di qualcosa andato a male, invecchiato, ammuffito.

Nulla è lasciato al caso, il destino funesto si abbatte come una forza della natura contro una europa incapace di reagire. Umiliata nella sua potenza, perde il fascino antico delle sue radici umanistiche. Non vi è più nulla della tensione e della sfida endogena, ideata da Malaparte negli anni venti, fra due Europe, tanto vicine quanto lontane, diverse ma “sorelle”, fra Riforma e Controriforma. Non vi è lo spirito vitale, la fiera indipendenza, la ricchezza culturale: se vi sono due Europe sono entrambe dei relitti, dei corpi agonizzanti in attesa della fine. Tutti hanno perso la guerra, anche gli inglesi, i russi, persino gli americani.

Questo è un motivo fondamentale dell’opera malapartiana e tornerà sempre, in maniera quasi ossessiva, in ogni pagina di Kaputt e de La Pelle, con quel quadro terribile di una Napoli lacerata e disumana, «nuda come l’antica metropoli mediterranea, medievale, rinascimentale, spagnolesca, rinascimentale e barocca, decadente e detritica, priva di una pelle che copra e dia forma alla straziata umanità pulsante del suo corpo sventrato».

Certo, per capire l’opera di Malaparte non si può prescindere dal riconoscere gli eccessi insiti nel carattere dell’autore, il gusto perché no dello scandalo, della provocazione, dell’esasperazione dei concetti. Che Kaputt per esempio sia un libro “crudele” l’autore ne è più che mai consapevole, anzi il suo intento è proprio quello di eliminare ogni aspetto di positività, redenzione, salvezza.

Opposto a questa “superiorità metafisica” è il colorito, chiassoso, auto-celebrativo popolo napoletano che, ne La Pelle, è come se impartisse a se stesso la crudeltà dell’esibizione delle proprie miserie. Il luogo della decadenza europea coincide con la città partenopea come un palcoscenico di stracci, panni, fagotti, valige, gabbie di canarini affamati, carrozzine. Una processione di povere cose che, sommersa da schiamazzi, assume i contorni della farsa.  La peste che ha colpito il capoluogo campano, è la stessa che ha ferito a morte l’Italia, l’Europa; come se nel microcosmo napoletano si identificasse la vicina e presunta fine dell’occidente.

Il sangue ha sporcato ognuno di noi, un morbo tremendo ha toccato i nostri corpi, le nostre menti, le nostre esistenze.

Gli abitanti di Napoli, creature e  anime che si muovono disordinatamente all’interno de La pelle, perdono tutto, sono pronti a vendere qualsiasi cosa pur di sopravvivere – i propri cari, la propria dignità, la propria pelle – ma rimangono attaccati ad una speranza quasi ancestrale.

Gli uomini, le donne, i bambini all’interno del romanzo sono personaggi nudi: Malaparte sceglie la città di Napoli per il suo affresco, perché lì il ventre è più scoperchiato, il trucco non c’è, il teatro del mondo si dipana a cielo aperto. Napoli è metafora dell’intera Europa, è una città vinta in un mondo di vinti.

La bellissima e visionaria scena dell’eruzione, del «cielo che a oriente, squarciato da una immensa ferita, sanguinava, e il sangue tingeva di rosso il mare, l’orizzonte si sgretolava, ruinando in un abisso di fuoco» ci permette di cercare (e trovare) questo brandello di umanità rimasto in vita. Quegli uomini, fuggendo dal fuoco, trovano una nuova speranza di fronte al mare, in quel Mediterraneo tra le cui onde riemergono i fasti del nostro passato:

“Jack volse il viso, guardò gli uomini distesi nel sonno, la ragazza che si pettinava mirandosi nello specchio di mare, la donna che allattava il suo bambino. Io avrei voluto dirgli: Dio li ha appena creati eppure sono gli esseri più antichi della Terra. Quello è Adamo e quella è Eva, appena partoriti dal Caos, appena risaliti dall’Inferno, appena risolti dal sepolcro. Guardali, sono appena nati e hanno già sofferto tutti i peccati del mondo. Tutti gli uomini, a Napoli, in Italia, in Europa, sono come quegli uomini. Sono immortali. Nascono nel dolore, muoiono nel dolore, e risorgono puri. Sono gli Agnelli di Dio, portano sulle spalle tutti i peccati e tutto il dolore del mondo”.

Il Vesuvio come forza purificatrice atta a debellare il morbo che è penetrato silenziosamente all’interno della civiltà europea; un evento estremo, implacabile, titanico che dal centro della Terra ripulisce tutto il marcio della superficie.

Distruggere per ricostruire, cancellare per ridisegnare, morire per rinascere. Bisogna raggiungere il fondo per aggrapparsi ad uno spiraglio di luce.

Il morbo che ha toccato l’Italia e l’Europa è una vera e propria epidemia, quella peste di cui si parla nel primo capitolo e che avrebbe dovuto dare il titolo al libro se non ci fosse stato l’omonimo romanzo di Albert Camus nel 1947:

“Erano i giorni della “peste” di Napoli […] L’onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l’agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, batter le mani, saltare di gioia fra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori”.

La Pelle è la naturale continuazione di Kaputt, ma forse riesce ad essere ancora più forte, colpisce più duro e più a fondo.

Nell’ultimo capitolo di Kaputt, ambientato nella città partenopea, è esaltato ancora una volta il tema del sangue, simbolo e a sua volta portatore di simboli all’interno dell’evento bellico, e vi si racconta il clima di ebbrezza collettiva che si propaga nella città, dai quartieri poveri a quelli più ricchi, alla notizia che nel bombardamento del Duomo sono rimaste illese le preziose ampolle contenenti il sangue di San Gennaro.

Dal “profondo” nord lo sguardo di Malaparte si sposta sulla città ai piedi del Vesuvio: gli orrori ucraini, polacchi, rumeni, delle lande desolate finlandesi sono tanto lontani quanto “inverificabili”. Parlare di Napoli è come tirare fuori i propri panni sporchi, il marcio volutamente tenuto nascosto.

I napoletani sono un popolo che ha perduto la guerra è vero, ma la guerra l’hanno persa tutti. Non si sentono né vinti né tantomeno liberi:

“Ma nonostante l’universale e sincero entusiasmo, non v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell’animo del popolo. Era fuori di dubbio che l’Italia, e perciò anche Napoli, aveva perduto la guerra. È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra sono tutti buoni, non tutti sono capaci di perderla.

Ma non basta perdere la guerra per avere il diritto di sentirsi un popolo vinto. Nella loro antica saggezza, nutrita di una dolorosa esperienza più volte secolare, e nella loro sincera modestia, i miei poveri napoletani non si arrogavano il diritto di sentirsi un popolo vinto. Era questa, senza dubbio, una grave mancanza di tatto. Ma potevano gli Alleati pretendere di liberare i popoli e di obbligarli al tempo stesso a sentirsi vinti? O liberi o vinti. Sarebbe ingiusto far colpa al popolo napoletano se non si sentiva né libero né vinto”.

Malaparte è testimone ancora una volta in prima persona di questo evento, un testimone sui generis di questo meccanismo. È spinto da una forte inquietudine e il suo linguaggio riesce ad essere ancora più aggressivo ed eccitato.

Il quadro immaginoso e straziante della città campana è da un lato fortemente realistico e dall’altro incredibilmente onirico. I principi reali, i nobili, i ricchi, i borghesi sono scappati in rifugi certamente più sicuri, il centro si è fatto periferia e viceversa, un unico focolaio di anime è in attesa dell’evento di rottura coincidente con lo sbarco degli americani. È una città spoglia, il trionfo delle “rovine” e dei “bassi” che sotto il sole accecante del meridione e di fronte alla salsedine del mare e all’odore forte del pesce e del porto, mette in luce «l’innumerevole popolo dei poveri… L’immenso, inesplorato, misterioso “continente” napoletano».

In questo microcosmo si vendono «corpi vivi, corpi morti, pezzi di corpo. Si vendono bambini e bambine. Tutto può essere ridotto a mercato e merci, persino i sentimenti, le più segrete sostanze dell’anima».

C’è un continuo rinvio a voci, a clamori, al brulichio, ai tumulti di questo popolo che provengono dai vicoli, da tuguri, dalle tane nascoste fra le macerie, dalle caverne.

La Pelle è una «rivelazione d’orrori», una oscena «allegoria gotica»di una Napoli disfatta, una galleria di immagini che, introdotta dalle ultime pagine di Kaputt, si mostra come una prima processione di mostri, di esseri deformi, mutilati, storpi, nani che la guerra toglie «alla loro religiosa clausura nel fondo delle case, dove la pietà, il sacro orrore, la superstizione del popolo e il pudor familiare, li celevano per tutta la vita, condannati al buio e al silenzio».

Questo flagello nuovissimo ha guastato l’anima, ha corrotto il senso dell’onore e della dignità umana, ha spinto alla degradazione del corpo e della mente. Il teorema di Malaparte è più terribile di quella specie di “Sodoma e Gomorra” di cui parla Axel Munthe nella sua Storia di San Michele. Napoli è e continua ad essere un mondo a sé, una città emblematica sopravvissuta ad una antichità remota e misteriosa, un portale che permette all’Europa moderna di riunirsi con il proprio passato. È una città vinta per antonomasia: il diritto minimo ed elementare alla vita e il disperato senso di appartenenza a questo mondo producono il fiorire di un’industria terribile, quella della propria pelle. Gli effetti dirompenti della guerra, l’abitudine alla violenza, producono una «cancrena di membra marcite»; in ogni immagine del libro si sente l’odore di carne fino a sentirne il ribrezzo, fino a voler cancellare le immagini dalla testa.

La pelle è a conti fatti l’ultima fragile frontiera fra essere e nulla. È la metafora di quello che resta al fondo delle catastrofi, è «l’ultimo atto nella vicissitudine dei corpi».

Se è vero che Kaputt, nel viaggio erratico dell’autore nelle variegate realtà del continente, è un lungometraggio sull’Europa e che La pelle,nella “rappresentazione teatrale” di Napoli, ne diventa metafora totalizzante, è anche vero che quest’ultima opera è anche e soprattutto un libro specificatamente sulla città partenopea. All’interno della narrazione vi sono sparsi qua e là riferimenti ad altri luoghi (Roma – con l’entrata in città attraverso la via Appia – Berlino, il villaggio cosacco di Dorogò, Cassino, Firenze, Milano) ma La pelle rimane un libro su Napoli; la città è fotografata per intero, si testimonia e si denuncia senza inibizioni il suo stato nel pieno della “apocalisse” dell’evento bellico.

Una città che si sente attaccata, come se quello di Malaparte fosse un oltraggio ai napoletani, alla gente del posto, agli splendidi paesaggi che dal Vesuvio scorrono verso il mare. Si ebbero comizi di protesta e dimostrazioni, furono affissi manifesti in cui si accusava lo scrittore che se avesse osato mettere piede nel capoluogo campano non avrebbe potuto sentirsi tranquillo.

All’autore toscano si rimproverava non soltanto di aver “registrato” la cronaca dei «giorni bui» dell’occupazione alleata (e di averne dato una propria interpretazione “universale”) ma di provare gusto, di giocare, di “divertirsi” con questa «estetica macabra», con questa «poetica della crudeltà».

Pagine dove tutto è esplicito: morte, guerra, sangue, fame, miseria, erotismo. Un volume di esasperato neorealismo che non è né un diario né un romanzo, ma la presentazione della realtà nel suo aspetto più crudo. Un libro incorniciato di “maledettismo”: i napoletani se ne offesero, Emilio Cecchi ne scrisse come di una maledizione.

Ma La pelle è un libro sopravvissuto a tutte le polemiche. Gli anni sono passati: «l’eco di quella guerra, se ancora presente, è stato sovvertito da echi di altre guerre. Alle nostre spalle sono altri eccidi atroci, ancora carne venduta; ancora popoli vinti o vincitori sfigurati chiedono anzitutto pietà per se stessi o per lo meno dovrebbero».

Il libro di Malaparte non possiamo più leggerlo come un documento. Lo leggiamo come un testo di letteratura ormai ben collocato nello scaffale del tempo. È un libro di forte immaginazione retorica, oltre che una testimonianza, proprio perché fu immaginato come una testimonianza che dovesse provocare orrore.

Ci sono delle menzogne all’interno de La pelle ma esistono per esuberanza di scrittura, non per manierismo: vanno a comporre un libro barocco e vitalissimo, folto di idee, proprie o ricavate da Nietzsche, o da oltranzisti come Barrès e come Maurras.

Scrisse La pelle per mettere a nudo la decadenza d’Europa, il vero lascito della guerra. E dunque, la guerra e la Napoli del dopoguerra sono ritratte sulla falsariga dei cataclismi della storia raccontati dalla letteratura: la peste di Atene (Tucidide), la peste di Firenze (Boccaccio), la peste di Londra (De Foe), quella di Milano (Manzoni). La delirante e funebre gioia di vivere, l’esplosione dell’eros che a quei cataclismi si accompagna sono visti con una lente che tende a visualizzare, a verticalizzare i dati realistici, esasperandoli, fino a farli diventare “troppo reali”, e quindi, di rovescio, irreali.

Il colore di Napoli, il tumulto della folla, il “candore” (apparente) degli eserciti di occupazione, la fame e la ferocia conseguente, replicano il rito antico che allaccia vinti e vincitori in un abbraccio letale, mentre lo schema si riempie di un periodare frenetico, di immagini che proliferano pagina dopo pagina.

La pelle vive per alcune visioni che non abbandonano il lettore: le lucidissime scarpe di cuoio giallo dei soldati neri; i gradoni di Chiaia invasi da folle di prostitute come fossero un tripudio angelico; i silenzi della notte dal gusto ellenico per evidenziare di bellezza i pleniluni sul mare; le lividure e le muffe stampate sotto il crudele sole di mezzogiorno sulla pelle di affamati e sulle macerie; le imprevedibili e impenitenti eleganze degli omosessuali praticate a scorno di ogni miseria. Su questa linea vi sarebbe ancora molto da ricordare. Le pagine dello scandalo, quelle che vengono più volte ricordate nel parlare del libro (le parrucche bionde sui sessi delle brune per invogliare i neri, la figliata omosessuale, la sirenetta servita a pranzo dal generale Cork) producono un duro coagulo con tutto il resto.

E tutto il resto è nel terribile significato del corpo schiacciato, involontariamente, da un carro armato Sherman sulla via Appia all’arrivo degli americani a Roma, della bandiera di pelle umana, quella che nel terz’ultimo capitolo diventa la bandiera di Napoli, dell’Italia, d’Europa:

“Un uomo morto è un uomo morto. Non è che un uomo morto. È più, e forse anche meno, di un cane o di un gatto morto. […] E io dissi: a Lino Pellegrini che mi sedeva accanto: «è la bandiera dell’Europa, quella, è la nostra bandiera». […] «Andiamo» dissi «a veder seppellita la nostra bandiera»”. 

Oppure è la lava del Vesuvio che scende giù verso la città, con il popolo napoletano a rifuggiarsi di fronte al mare, in un ritorno metaforico alle proprie radici mediterranee; o  è la sconfitta di ogni morale cristiana, perché «anche Cristo ha perso la guerra»; o è ancora la frase sussurrata che chiude il libro, «è una vergogna vincere la guerra»

Fatto sta che, oggi, La pelle è il libro di un uomo che ha messo a fuoco, lucidamente e con intensa arte retorica, l’eterno scandalo della guerra, un uomo che nel percorso iniziato con Kaputt ha lasciato una testimonianza unica nel suo genere, nella descrizione, ricca di pietas squisitamente umana, di una delle pagine più nere della nostra storia recente. 

Per questo poco importa dove Malaparte si collochi quando racconta e giudica. Buona l’intuizione di Campailla quando allo scrittore oppone un suo personaggio, l’americano Jack, il quale ne La Pelle afferma: «ah, l’Europa! Che straordinario paese! Ho bisogno dell’Europa per sentirmi americano». Malaparte ha bisogno di Napoli, ha bisogno dell’Europa, dell’America, dei fascisti, degli antifascisti per dare linfa vitale e nuova alle proprie tesi.

Volendo si può contestare il senso della sua operazione, si potrà ricercare il bisogno di una cronaca più completa, scevra da orpelli, serena. Ma Malaparte non è uno storico, è uno scrittore: il suo intento è quello di fornire alla collettività non un documento ma una opera d’arte. Non vuole mettersi al di sopra delle parti, vuole calarsi nella mischia perché «catilinario di vocazione». All’interno della “bagarre” trova la sua ispirazione: se si riesce a partire da questo presupposto fondamentale si potrà apprezzare, criticare o semplicemente leggere con maggiore serenità un autore che, volenti o nolenti, è stato tra i protagonisti del secolo appena trascorso.

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