“20 sigarette”: a tu per tu con Aureliano Amadei

di / 12 marzo 2011

Tra febbraio e marzo, Roma regala giornate di sole, come fossero dei lampi, delle ventate di primavera, fugaci come una corsa, fugaci come le parole.
Decido, dopo aver letto del suo film, che vorrei intervistare Aureliano Amadei, per molti motivi, prima di tutto “poetici” oltre che cinematografici. Mentre “20 Sigarette” il suo film era a Venezia, leggevo di questo filmaker, precario, eretico nella sua semplicità.
Poi, una sera, vidi il suo film e un groppo mi salì fino al cuore, per poi intasare la mia testa. “Venti Sigarette” è un film diretto, immediato, solare nella sua disperazione, nella sua urgenza di raccontare vita, morte, terrore e bellezza. Quando incontro Aureliano a Roma, in un bar del Rione Monti, mi fermo per qualche istante ad osservare le sue mani, che da una parte tengono il passeggino con il figlio più piccolo e dall’altra il bastone, che lo accompagna. Potrebbe essere sintetizzato in questa immagine la sua storia. Il bastone si fa compagnia con la sigaretta, che crea nubi dove si perdono le parole di questa intervista.

“Venti sigarette” è un film che alterna molti registri narrativi, com’è stato da un punto di vista registico dare omogeneità ad una storia per niente statica?

Ho faticato a far passare l’idea di alternare i registri narrativi nel film, ho dovuto convincere i miei collaboratori che fosse l’idea migliore. Ho lavorato molto perché nell’affrontare i tanti stili differenti del film va tutto improntato minuziosamente dagli attori alla fotografia, per cercare di preparare al meglio questo continuo cambiamento di registro, questa incoerenza. Il tutto è essenziale per me, perché il film doveva assolutamente avere il senso di vita vissuta, vera, che di solito è un pout pourrì di generi diversi.

Com’è stato passare dal libro al film?

All’inizio tutti mi dicevano: “è un libro molto cinematografico”, quindi sembrava che sarebbe stato abbastanza semplice, in realtà è stato molto complicato. Sono state fatte diverse stesure della sceneggiatura. Il discorso è che mentre in letteratura si può divagare entrare nei meandri di un solo aspetto, in un film invece la vita reale così com’è rischia di diventare anche noiosa, richiede un certo simbolismo, un certo binario di lettura, che sulla vita vissuta è sempre pericoloso.  Ad esempio il finale è stato trovato solo nell’ultima stesura della sceneggiatura perché ci si è domandati: “come chiudi una storia vera?”  
C’è poco spazio per l’invenzione, per il simbolismo e quindi occorre andarsi a trovare nella vita tutti quegli aspetti che possono andar bene per un film.

Come sono state articolate le riprese del film e dove avete ricostruito e girato i momenti iracheni?

Il film è stato girato per la grandissima parte a Roma e dintorni, anche la parte irachena. La parte della base nel deserto quella grande che è girata in una cava della Magliana, dove ho avuto l’orgoglio di condividere un set con Sergio Leone, la base di Nassirya che esplode è al faro di Fiumicino, ci sono poi sia una serie di parti urbane come la città di Nassirya sia che di passaggi nel deserto che sono stati girati in Marocco.

Il film si avvale di attori bravi e giovani, in particolare Vinicio Marchioni, che interpreta te stesso e la tua vita. Perché proprio Vinicio, che ricordiamo, era stato scelto per un altro ruolo inizialmente e che tipo di legame si è instaurato tra voi e com’è nato il vostro rapporto?

E’ nato come dovrebbe nascere un rapporto tra un regista e un attore, lo provinai per un ruolo piccolo e glielo diedi subito perché mi era piaciuto tantissimo, poi l’anno successivo mentre si facevano i casting per gli attori principali l’ho riprovinato, perché avevo pensato a questo attore straordinario per il ruolo di Ficucello, l’ho messo sotto torchio, l’ho fatto parlare con accento del Nord ed è stato anche lì eccezionale, andando ancora avanti, facendo il casting per il ruolo da protagonista ho ripensato ancora a lui, l’ho messo ancora più sotto torchio, l’ho fatto andare in bicicletta senza mani, quando lui il giorno prima non sapeva andare in bicicletta e alla fine si è stretto su di lui. Questo percorso è stato fatto per tutti gli attori del film, ho badato sempre alla qualità, alla mia qualità: la faccia giusta, l’accento giusto, l’età giusta e la storia di Vinicio ne è l’emblema.
 
Quindi un raro esempio di meritocrazia cinematografica. Com’è stato lavorare con lui sul tuo personaggio e sulla tua storia?

Ha ripercorso con me tutta la mia storia, tutte le mie azioni, ha frequentato tutti i miei luoghi, ha letto tutti i miei libri , c’è stata una vera e propria simbiosi tanto che il rapporto sul set è stato molto paritario. E’ particolare avere il tuo alter ego sul set, è evidente che se credi in questo anche le sue opinioni da regista diventano importanti.  Come regista odio dire all’attore come fare la parte, la ritengo una mancanza di rispetto nei confronti dell’attore ma tra me e Vinicio era possibile, con reciprocità nell’approccio dei ruoli che avevamo.

Da spettatore ho percepito questo, c’era un clima particolare, fatto di condivisione e di amore per il progetto. Com’è stata la vita sul set di “20 Sigarette”?

Questa domanda mi lusinga molto perché questo aspetto mi è sempre stato molto a cuore, cioè ho sempre voluto che lo spettatore percepisse una situazione positiva. Qui si è creata una sinergia incredibile, ho lavorato su molti set e un set così non l’ho mai visto, c’era voglia di lavorare, voglia di fare bene, mai un atto di pigrizia, di cialtroneria, tutta una troupe completamente convinta del progetto fino in fondo, tutta una troupe rispettosa della storia e di me, una cosa molto particolare. Forse è una cosa che non si ripeterà mai più sul mio set, perché va oltre il film, ma riguarda la mia storia. Ho vissuto momenti in cui il gruppista viene con una copia del libro e mi chiede di firmarlo, questo significa che il gruppista sa che film sta facendo e mette passione nel suo ruolo cosa che accade raramente nel mondo del cinema perché spesso le maestranze neanche sanno cosa stanno girando.

C’è stato un momento di grande tensione emotiva sul set?

E’ evidente che la scena dell’attentato un po’ per la natura stessa della tecnica utilizzata, per la fedeltà del set,  è stata quella più dura. Più volte mi sono sentito male, mi sono dovuto fermare. Abbiamo girato quella scena con una vera soggettiva, con il massimo della veridicità possibile e del suo significato. E’ una soggettiva recitata, quindi ancora più potente. In Italia c’è un veto, c’è un’idea di soggettiva molto varia, qui si è voluta fare proprio la soggettiva: sei negli occhi del protagonista e tutto succede in macchina.
 

Poi il film esce e va a Venezia, viene accolto bene e tu sali sul palco esultando per la vittoria nella sezione “Controcampo italiano”, come vivi tutto questo?

Sotto tanti punti di vista il film è stato un successo inaspettato. L’unica ricaduta reale oltre l’emozione, l’orgoglio, è una grande incombenza perché mi rapisce, mi porta in giro per tutto il mondo. Il film mi ha dato così tanto e quindi ho il dovere di ridare tanto al film e non mi riesco a sottrarre in nessun modo, dovendomi fare un mazzo come una casa girando per mattinee, per festival, senza cavarne un centesimo. Per ora è questo l’effetto reale.

C’è tanta pellicola della Kodak, che hai vinto a Venezia…

Mi sono fatto dare i primi quattro metri, li ho imburrati , ci ho messo le alici, ma non vanno giù molto bene…

Il tuo rapporto con la politica?

Io sono partito per l’Iraq che ero anarchico, pacifista, antimilitarista. Sono ritornato dall’Iraq che sono pacifista, anarchico e contrario alle missioni militari all’estero. Il mio punto di vista è stato più volte messo in crisi come si vede nel film. Nell’arco di questo tempo ho rafforzato il mio punto di vista anarchico su tutto. Il vero senso di essere anarchici oggi può essere quello di non doversi schierare sotto delle bandiere e di prendere per buono quello che c’è nelle varie situazioni. Facendo così forse saremmo tutti incoerenti, ma magari lo fossimo tutti. Il problema reale della società di oggi è la prevedibilità. La più grande rivoluzione che un uomo può fare oggi è riprendersi la propria vita, ragionare con la propria testa, provare le proprie emozioni, le proprie rabbie, senza che queste siano surrogate. Ad oggi non ho sentito nessuna persona candidata alla guida del Paese parlare di decrescita.

Un libro, un disco, un film, di cui tu non puoi fare a meno…

Il libro è abbastanza pubblico, “In ogni caso nessun rimorso” di Pino Cacucci, il film “Arancia Meccanica”, il disco è Fresh Fruit For Rotting Vegetables" dei Dead Kennedys, e in particolare “Drag me” che è quella più esemplificativa.

La chiaccherata finisce e me ne ritorno verso casa, Aureliano si allontana verso un altro appuntamento.Ci voltiamo simultaneamente giusto il tempo di scambiare qualche parola e di salutarci ancora, in questo assaggio di primavera romana che stenta ad arrivare. Esistono interviste belle, altre meno, altre ancora difficili. Questa non è stata un’intervista, è stato un incontro tra un ragazzo libero, che ha fatto un film bellissimo che racconta la sua storia e un altro ragazzo che aveva voglia di raccogliere queste parole. Tutto in ogni caso senza alcun rimorso.

 

 

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