“La moltiplicazione innaturale della specie” di Clarence McFarrow

di / 20 marzo 2011

Umberto Eco nelle sue regole di scrittura si raccomanda di non spiegare mai una metafora, un gioco di parole o l’ironia. Sarebbe come dare dello stupido al lettore che se è abbastanza consapevole chiuderà il libro, irritato dalla vostra scrittura. Una regola ineccepibile, un insegnamento prezioso, se non fosse per Clarence McFarrow e per questo suo capolavoro scovato dalla casa editrice romana Salin Japi, che nel tempo ci ha ormai abituati a riscoperte di classici contemporanei. La storia è semplice, un triangolo amoroso, un omicidio, un’epopea familiare, un detective consunto dai troppi amori falliti e una donna cieca, vittima dei bombardamenti della guerra. Un intreccio lineare, come molti, una trama che si dipana veloce tra le colline che si affacciano sul mare, in scorci pittorici degni della scuola di Fontainebleau e borghi illuminati da pennellate rubate a Cézanne. Ma l’arte di McFarrow non è in discussione, eppure il merito maggiore di questo grande gioiello è un altro.
Ne La moltiplicazione innaturale della specie, McFarrow gioca con le regole e sembra ribaltare quanto detto da Eco. Il secondo capitolo, per esempio, si apre così: «I muri di cinta si susseguivano voraci in una tavolozza spenta dal grigio marmoreo del cielo (un grigio con le venature sfumate e tutto il resto per intenderci, è una bella metafora suvvia!)». Sicuramente qualcuno di voi storcerà il naso irritato, e anche io ammetto un leggero accigliamento, ma andando avanti nel testo, seguendo la trasformazione della voce tra le parentesi, si scopre non solo un disperato richiamo di uno scrittore al suo pubblico, ma anche di un uomo al mondo intero. Una richiesta di aiuto che si intreccia fatalmente con il percorso tragico nella vita nelle Highlands scozzesi. La tragedia degli inascoltati, di chi non ha mai avuto in vita la giusta gratificazione, e strangolato dai rimorsi di un’esistenza priva degli allori degni del suo ego, finisce per cadere nell’alcolismo cronico e infine, umiliato e offeso, suicidarsi in un bosco, con un colpo preciso di carabina. Oggi però possiamo celebrare la riscoperta della genialità di un maestro, esplorare il suo testamento spirituale e porlo nell’Olimpo degli autori indimenticabili, malati di enciclopedismo. Per questo non possiamo fare a meno di citare Beuvard e Pechuchet, Joyce o Musil, Ragatzov e Byunen e di porre McFarrow tra questi maestri, sopra a quegli autori che oggi vengono estratti dal dimenticatoio, canonizzati, e innalzati a classici, ai Wallace e Bolaño, a chi ha saputo giocare con l’autoreferenzialità della letteratura, scardinare i meccanismi ottocenteschi del romanzo, e fornirci finalmente nuovi occhi con cui interpretare la contemporaneità, affrontare il labirinto del reale e regalarci una visione del mondo inedita. Si potrebbe oggi riflettere sulle scelte dei nostri editori, sugli autori presentati come geni, casi letterari, romanzi lanciati con strilli presuntuosi, giudicati prematuramente capolavori ma che la storia, incurante delle classifiche, saprà dimenticare.

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