Il mio nome è Jackie Robinson

di / 17 giugno 2011

“Quello fu probabilmente il solo giorno nella storia in cui un uomo nero sia fuggito da una folla bianca per il troppo amore e non per paura di essere linciato.”

Questa celebre frase, coniata dal giornalista canadese Sam Maltin, probabilmente resterà nella storia del giornalismo sportivo americano. Chi rimarrà  senza alcun dubbio nella hall of fame degli uomini sportivi americani di tutti i tempi è sicuramente Jackie Robinson, il primo giocatore afroamericano a essere stato ingaggiato nella Major League, il corrispettivo della Serie A nel popolare sport a stelle e strisce che vede proprio in questo periodo l’apice della sua stagione. Scott Simon, giornalista e seguitissimo speaker radiofonico – autore e mattatore della trasmissione che porta il suo nome: Week end with Scott Simon in onda sulla “National Public Radio” tutti i fine settimana – è l’autore di questo libro pubblicato dalla 66thand2nd, casa editrice italiana che ha un gusto e un amore particolare per il meglio delle pubblicazioni d’oltreoceano (da poco è uscito sempre per 66thand2ND, La fine, il capolavoro di Scibona, nuovo talento della letteratura americana). Il libro di Scott, Il mio nome è Jackie Robinson, tradotto da Marco Bertoli, è una avvincente ricostruzione della carriera di uno dei più grossi talenti del baseball del secondo dopoguerra.  .

Siamo in un America dove non c’erano ancora i diritti per le minoranze razziali e dove i bianchi e i neri giocavano in leghe diverse. Gli afroamericani avevano infatti una lega tutta loro chiamata Negro Leagues e si trovavano a giocare con i bianchi solo durante la pausa stagionale, in esibizioni e partite di beneficenza (dove le star bianche prendevano ricchi cachet ndr).

Il primo ad avere avuto il coraggio e l’acume di infrangere quella convenzione fu un newyorkese di origini irlandesi, Branch Rickey, che vedendo l’enorme talento e l’indiscutibile potenziale di Robinson decise di ingaggiarlo per farlo giocare nei Dodgers, franchigia nata in quel di Brooklyn stabilitasi a Los Angeles nel 1958.

Il primo anno di Robinson nella Major League fu un vero e proprio inferno,tra insulti,palle tirate appositamente per far male e la diffidenza di tifosi e compagni di squadra. Ma Robinson con un coraggio e una determinazione indomabile è riuscito di partita in partita a infrangere quella barriera di stolida diffidenza.

Oggi che la maggioranza delle star dello sport americano sono  di colore ci sembra impensabile una storia del genere,ma in quegli anni Jackie Robinson ha dovuto lottare il doppio,il triplo degli altri per meritarsi la carriera che ha avuto.  Per chi di voi ama lo sport americano,non necessariamente il baseball, questo libro non potrà fare a meno di farvi pensare che senza un uomo con il coraggio di Mr Rickey e senza Robinson forse ora non esisterebbero i vari Lebron James e Kobe Bryant.

Anche se una storia del genere,così affascinante,suggestiva e densa di significato,poteva essere a mio avviso raccontata meglio. Simon usa uno stile giornalistico e ricostruisce la vita, non solo sportiva, di Robinson suddividendola in vari capitoli che a volte risultano dispersivi. La scrittura è efficace ma non sublima una materia di per se pregna di significato e di fascino. Un po’ come quando un regista si trova a girare un copione bellissimo e lo fa non esaltandone le doti, questo è quello che ho pensato leggendo il libro di Simon. Ciò non toglie che sia un testo godibilissimo che ha il merito di aver ricordato un uomo che ha cambiato la storia dello sport e dell’integrazione razziale.

Solamente per questo meriterebbe di essere letto nelle scuole italiane – visto che ci avviciniamo sempre di più ad un melting pot che spaventa inutilmente numerose persone – come del resto merita di diventare un film. E forse presto lo diventerà, dato che il mitico Robert Redford ne ha acquistato i diritti, ritagliandosi la parte del tenace e coriaceo Mr Rickey. Un regista talentuoso e affascinante come Redford potrà sublimare le parole di Simon e incidere per sempre nella memoria di tutti le gesta dell’uomo che ha dovuto guadagnarsi con sudore e lacrime quello che molti oggi danno per scontato.

“Chi dice che un anno dopo, a cinquantatre anni, la morte di Jackie Robinson fu la conseguenza ultima del peso sordo e crudele di mille insulti ricevuti, delle palle ad altezza testa e dei tormenti subiti, dimentica forse che non c’è dolore più profondo di quello di un genitore costretto ad abbracciare il cadavere del figlio. Jackie Robinson diede la vita per una cosa grande: poi passò oltre.”

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