Edmond Ganglion & figlio

di / 18 giugno 2011

Ci sono paesi invisibili.
Con strade d’ovatta, infissi di carta, finestre friabili e anche un po’ miopi, perché fuori il paesaggio s’appanna quando incontra quei vetri.
Piazze uguali a se stesse, dove il nome rimbalza intorno ai cortili e poi torna a posto, senza memoria.
Paesi senza passi, senza negozi, senza eventi da attendere.
Paesi senza. Popolati di mancanze e d’insegne inesistenti.
Saint Jean è uno di questi, un villaggio di panchine intente a bere il cielo, come sola notizia del giorno. Le uniche due attività ancora in piedi sono il bar, vuoto di gente così come di bibite, e un’impresa di pompe funebri, l’Edmond Ganglion & figlio.
Ma a Saint Jean, a non farsi vedere, ci si mette anche la morte. Perché dopo i primi lauti decessi così pieni di entusiasmo per il suo proprietario, non muore più nessuno.
«I morti erano morti e a Ganglion mancavano da morire». Così l’impresa imbocca il suo declino.
I dipendenti sfioriscono, i debiti si affollano e non resta che sperare nella canicola inclemente per scaldare qualche tomba e riaccendere i motori.
Ma non succede nulla e gli unici impiegati rimasti, Molo e Georges, tentano invano di ammazzare il tempo mentre anche lui resiste fin troppo e non si lascia strozzare.
Perciò si annaspa nella grappa, poiché il menu non offre altro, o si accorciano le chiome a qualche anziana signora, decisamente viva per essere cliente.
Poi qualcuno, all’improvviso, smetterà di respirare e per la ditta arriva un po’ di fiato. Forse.
Comincia quindi il viaggio di Edmond Ganglion & figlio (Instar Libri), brillante romanzo di Joël Egloff, già conosciuto per Lo stordimento, pubblicato dallo stesso editore nel 2006.
Storia minima, amara e bizzarra, fatta di personaggi grigi, ovvero molto sfumati, gesti piccoli e mediocri, ma densi d’impatto. Uomini comuni, privi di bellezza e di potere, immersi in un luogo impalpabile, dove le vie si confondono ed è facile perdersi per ore allungate. Dove è possibile ignorare che di lì a pochi metri si muove il mare. Molo, il più giovane e arruffato, non l’ha mai visto fremere e non sa che basterebbe un niente per bagnarsi davvero.
George, invece, baluardo della vecchia guardia, ha un occhio soltanto, ma forse è anche troppo per aprirlo su quello che già conosce e che non sa più sfiorarlo.
È un mondo in sordina, a tratti sfuocato, dove i sensi di colpa sono calciati di corsa, come il petto di un cane randagio, dove non scorre passione che meriti un segno.
«La vita è fatta di poco o di nulla e senza dubbio anche la morte». Una manciata di parole che riassumono il senso del libro. Non c’è vivo eccellente, così come non c’è defunto. Tutto si agita a mezza altezza, in un limbo incolore in cui si può anche non esser mai nati, come il figlio di Ganglion, rimasto solo una scritta impaziente, mai avverata in un corpo.
 Egloff continua a scegliere scenari nebbiosi, creature infelici e senza clamore, col suo stile tagliente veloce ed ironico che non risparmia nessuno. Eccetto, comunque, la banalità.

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