“La battuta perfetta”. A tu per tu con Carlo D’Amicis

di / 7 luglio 2011

La battuta perfetta (Minimum fax, 2010), di Carlo D’Amicis è un romanzo che ha destano particolare curiosità, un ritratto a tuttotondo  dell’Italia dagli anni Sessanta ai giorni nostri. Abbiamo intervistato l’autore, che anche in questa occasione si contraddistingue per chiarezza e lucidità.

Come nasce l’idea di La Battuta perfetta?

Dal bisogno di ricostruire il legame tra me e questa maniera patinata, frivola e un po’ arrogante di essere italiani che potremmo definire berlusconismo. Attraverso un confronto generazionale che si snoda dagli anni Sessanta ai giorni nostri, il romanzo vuole andare a cercare la radice più profonda di questo fenomeno: una radice che riguarda tutta la nostra società, non solo chi ha votato Berlusconi in questi anni. Che mi senta politicamente ed eticamente distante dalla sua concezione del mondo e dei rapporti non significa infatti che, per quanto lungo e aggrovigliato, non esista un filo di congiunzione con la mia percezione.  Perché, come cantava Gaber, la questione non è tanto Berlusconi in sé, ma il Berlusconi che c’è in me, ovvero in ciascuno di noi. Mi piacerebbe, insomma, che alla fine della “Battuta Perfetta”, il lettore misurasse la propria lontananza dal berlusconismo proprio attraverso gli elementi che lo apparentano storicamente, culturalmente e direi naturalmente ad esso.

Leggendo il libro, è difficile non pensare che la vita di Canio approdi a esiti simili a quelli di suo padre, nel senso di un fallimento privato e professionale. Padre e figlio sembrano a volte due facce della stessa medaglia, e sembra che il secondo presupponga il primo. Si può dire che le brutture e la volgarità della tv commerciale non si spiegano senza la tv austera e paludata degli anni 50-60?

Sì, credo che ci sia un rapporto di causa ed effetto tra gli anni 50-80 (rappresentato nel romanzo dal funzionario Rai Filippo Spinato) e il trentennio successivo (rappresentato da suo figlio Canio, uomo Mediaset e barzellettiere di Silvio Berlusconi). All’austerità, al perbenismo, all’ipocrisia si è sostituita una euforia drogata e priva di regole; e la televisione ha avuto la doppia funzione di testimoniare e provocare questo cambiamento. Entrambi i modelli, e nel romanzo i personaggi che li rappresentano, sono destinati al fallimento. Sarebbe bello se le nuove generazioni riuscissero a distillare e coniugare il buono che, nonostante tutto, esiste nell’uno e nell’altro: rispetto, ordine, cultura nell’Italia di Filippo Spinato, emancipazione e leggerezza in quella di Canio.     

L’ossessione di voler piacere a tutti i costi è uno degli assi portanti del suo romanzo: ne soffre Silvio Berlusconi, e ne soffre anche il protagonista. Allargando il discorso, viene il sospetto che l’italiano sia attratto irresistibilmente da chi ha questa caratteristica. Come si può spiegare questa “attrazione fatale”?

Prima di tutto penso che stiamo parlando di una pulsione naturale, che in Italia è diventata, come dici giustamente tu, un’ossessione dopo essere stata troppo a lungo  rimossa da una società che, negli anni 60 e 70, per uno strano incrocio tra pensiero cattolico e materialismo storico, censurava sistematicamente le istanze dell’io (e della sua componente narcisistica), del bello, del piacere, del divertimento Col risultato che queste istanze sono esplose al primo accenno festaiolo: è bastata una puntata di Drive In e tutti volevano avere le tette di Carmen Russo o, in alternativa, toccargliele. A questo va aggiunto un problema degli ultimi anni: abbiamo sempre meno consapevolezza della nostra identità, facciamo sempre più fatica a costituirci e consolidarci come individui, a identificarci davvero e profondamente nel lavoro, nelle convinzioni religiose, negli affetti: non a caso precarietà (o addirittura liquidità) sono parole chiave per interpretare il tempo che viviamo. Mancando la struttura, il filo di ferro che ci regge in piedi, cerchiamo negli altri un consenso che ci faccia esistere, che legittimi il nostro stare al mondo: siamo insomma costretti a piacere agli altri non piacendo più a noi stessi.       

La sua scrittura è definita da alcuni densa, a tratti “barocca”, senz’altro di grande intensità emotiva, e nel caso di La Battuta perfetta contribuisce a dar vita alle vicende comiche e tragicissime dei personaggi. Come autore, può spiegarci a quali esigenze risponde la sua scelta stilistica e linguistica?

La scrittura per me è esplorazione, conoscenza, per certi versi conquista del mondo. Le parole sono gli strumenti che uso in questo viaggio: quindi può essere che l’ansia di mangiare la realtà dentro e fuori di me porti a un eccesso, a una bulimia dell’espressione. Ma nello stesso tempo rivendico la sincerità e il fondamento emotivo del mio linguaggio: la sua densità è la densità che riconosco nella vita, nei sentimenti, nei pensieri. Non è mai, spero, un esercizio di stile.    

A una prima lettura l’epilogo del romanzo è spiazzante. Si è portati a pensare che il “ritorno alle origini” di una famiglia più o meno riunita sia la sola via di uscita dalle brutture del mondo “di fuori” che hanno ferito i personaggi. La domanda è quasi obbligata: è una via di salvezza possibile o forse soltanto la scelta meno peggiore?

Il ritorno alle origini non va inteso in senso nostalgico o reazionario. E le origini, per me, non sono tanto un tempo e un luogo, ma le condizioni attraverso le quali l’animo umano può ritrovare una sua naturalità. Quasi tutti i personaggi del romanzo vivono in una dimensione deformata, aberrante e mostruosa della propria umanità: anche per questo, a secondo di come li si vede, possono apparire teneri oppure disumani. Ecco, ritrovarsi insieme dalla Matera da cui erano partiti, ai piedi di una croce virtuale piantata lì anni prima da Pasolini, è un modo per rimettere in piedi quella tenerezza originaria (a cui alludo alla fine del libro) che ci redime dalle nostre debolezze e ci fa riconoscere gli uni con gli altri, anche nelle differenze più marcate, come esseri umani. 

Si dice che lo stile unico di un autore sia la somma degli scrittori che conosce e apprezza, e che fanno parte del suo canone personale. Qual è lo scrittore o il libro che ha esercitato un ruolo fondamentale nella sua scrittura?

Di fronte a questa domanda mi viene sempre in mente quella frase di Flaiano che definiva la cultura come l’insieme delle cose che uno ha letto e poi dimenticato (forse la citazione non è letterale, ma fedele al suo spirito ne ho dimenticato la formula esatta!…). Per dire che ciò che veramente conta, secondo me, è la capacità di interiorizzare, e quindi anche trasformare in base a ciò che siamo, tutto quello che ci raggiunge. Detto questo, dell’impatto che ho sentito portando dentro di me i romanzi di Dostoevskij, o Lolita di Nabokov, o le interviste con uomini schifosi di Wallace, ricordo bene la deflagrazione, e non dubito che siano ancora lì, in piena esplosione, a scheggiare il mio mondo.   

Grazie per la sua disponibilità e cortesia d’altri tempi.

Leggi la recensione di La battuta perfetta su Flanerí

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