Il confessore di Cavour

di / 12 luglio 2011

Di una relazione inedita di padre Giacomo da Poirino si era avuta notizia nel 1961 in occasione del centenario dell’Unità d’Italia. Per il centocinquantenario, Lorenzo Greco, già professore di letteratura a Pisa e in America, e attualmente docente di sociologia della comunicazione presso l’Accademia Navale di Livorno, autore di un romanzo – Tecniche dell’adulterio (Camunia 1991) –  ha voluto conferire a  questo documento «la forma di un racconto letterario, che è come dire di un’interpretazione morale e insieme di una ricostruzione letteraria che ci può forse far sentire ancora più vicini eventi e personaggi su cui giova ancora tornare a riflettere».

La vicenda raccontata in Il confessore di Cavour si sviluppa dal 22 luglio all’8 agosto 1861: il tempo necessario a padre Giacomo per scendere a Roma da Torino, affrontare un processo ecclesiastico per aver amministrato i sacramenti a Cavour morente, scrivere su questi fatti una seconda relazione da presentare al Papa, che la rigetta, e ripartire con addosso la pesante condanna a non poter più esercitare il ministero ecclesiastico.

È la storia di una amicizia tra un prete e un uomo politico che in punto di morte chiede di ricevere i sacramenti. Un anno prima dell’improvvisa morte del Conte, il 26 marzo 1860, Pio IX aveva promulgato la scomunica contro quanti avevano osato minacciare l’integrità degli stati pontifici. Un decreto papale che anche fra’ Giacomo aveva dovuto affiggere alla porta della sua chiesa, Santa Maria degli Angeli a Torino, la parrocchia dei Cavour.

La fedeltà all’amico porta padre Giacomo in rotta di collisione con l’istituzione ecclesiastica. Alla presenza di  un coro muto di ecclesiastici, un aggressivo Pio IX grida addosso al povero frate quello che avrebbe dovuto fare: «Certo non ignorate che prima di confessare Cavour, il vostro dovere era di dirgli: Signor Conte, prima di tutto ritrattate il male che avete perpetrato contro la Chiesa romana,  e dopo potete confessarvi».

Il conte Camillo sul letto di morte, confessato e comunicato, aveva dichiarato davanti a tutti che aveva chiesto spontaneamente il conforto della fede e voleva che questo si scrivesse sui giornali e che tutti lo sapessero. «Santità – osa affermare il frate – in queste parole del conte mi pare che sia implicita la ritrattazione». Ma il papa è irremovibile: dichiarare che Cavour ha ritrattato o dichiarare che il frate ha mancato al suo dovere. Fra’ Giacomo non può sottoscrivere nessuna delle due. E resta solo.

Attorno a lui Greco tratteggia una passerella di tipi ecclesiastici.C’è l’inquisitore del Sant’Ufficio che, con felpata determinazione, lo interroga per ordine del Papa e gli suggerisce di cavarsela con un’ ipocrita menzogna. C’è il cinico cardinale di curia che incita il povero frate a non cedere al volere del Papa perché ha compreso quanto convenga alla Chiesa la conciliazione con lo Stato. C’è il Generale dei minori francescani, alto, magro, con la barba corta, con occhi accesi e fulminanti, del quale colpisce «la violenza verbale con cui si faceva fustigatore di ogni debolezza umana». E poi c’è Pio IX, papa di grandi ma effimere illusioni, uomo debole che si lascia muovere dalla paura, segue cattivi consiglieri e si rifugia nella ragion di Stato. Fra’ Giacomo ne rimane disorientato.

Le pause del racconto si svolgono nel convento di San Francesco a Ripa dove il frate alloggia. Qui vi si destinavano religiosi provenienti dalle regioni più lontane colpiti da qualche provvedimento disciplinare o in attesa di processo. Preti vicini alla gente, che discutevano di politica e spesso facevano scelte di campo a rischio di punizioni. C’erano frati siciliani e napoletani che si erano uniti a Garibaldi, romagnoli e marchigiani che si erano adoperati per l’annessione al Piemonte. Uomini nei quali «l’ideale della religione non era mai andato disgiunto da quello della patria». A padre Giacomo questa pareva «tutta brava gente». Una simpatia che anche Greco sembra condividere. In una recente intervista ha dichiarato di essere attratto da figure come il Padre Pirrone che nel Gattopardo accompagna il principe di Salina, o anche – depurato dagli aspetti più caricaturali – Don Camillo. Padre Giacomo è figura di più alto spessore: coerente al suo ruolo, in fedele e discreta vicinanza umana e spirituale anche ai potenti, senza nulla chiedere e nulla concedere fuor che l’amicizia e l’aiuto spirituale, sembra additare un modello di ecclesiastico che ascolta e cerca di comprendere, che non interviene o – se lo fa – esprime il proprio pensiero senza voler influenzare e tanto meno  mercanteggiare, convinto che quello che è suo compito offrire non ha prezzo né può essere imposto a nessuno.

Il racconto di Greco non è dunque solo la storia di quei quindici giorni dell’estate 1861 ma un eccellente contributo letterario alla nostra riflessione sulle relazioni tra Stato e Chiesa in Italia. 

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