92 giorni

di / 21 luglio 2011

Leon Barlow ha fatto la sua scelta: ha lasciato una moglie rancorosa, dei figli piccoli e ancora amati, una vita di sicurezze e disillusioni per mettersi in gioco, per inseguire la propria arte: «Ciò che avevo deciso di fare era semplicemente vivere alla giornata. Lavorare per un po’ di giorni e poi smettere. Campare coi soldi che avevo guadagnato e scrivere fino a quando l’ultimo spicciolo non se ne fosse andato. Poi lavorare ancora per un po’ di giorni e così via». Nei 92 giorni descritti in questa novella, Leon scrive decine di racconti, li spedisce nelle redazioni di tutto il paese e li osserva tornare indietro accompagnati da un rifiuto. Nella ricerca di una consacrazione, circondato da poeti spacciatori, uomini deformati dalla violenza, falegnami ubriachi e soli, e donne volgari o salvifiche, Barlow attraversa il crepuscolo della sua vita, scivolando stordito su fiumi di birra, sfiorando la morte, inseguito dalla propria distruzione.

Con questo volumetto ruvido, traboccante l’illusa angoscia dell’autocompiacimento, Mattioli 1885 porta finalmente in Italia Larry Brown. Scrittore oggi molto apprezzato in America, ma praticamente sconosciuto in Italia, amato da Bob Dylan, faticò a vedere il proprio lavoro pubblicato prima di essere osannato dalla critica. Paragonato con esagerazione iperbolica a Faulkner, Brown riconoscerà il suo debito verso Carver e soprattutto Bukowski. Figlio di un mezzadro alcolista, praticò molti lavori tra cui il carpentiere, il taglialegna, il camionista e il pompiere. Come molti scrittori americani fece della sua vita la trama principale delle sue storie. Così a Barlow, Brown affida il compito di ripercorrere i giorni in cui provava a farsi notare dall’establishment letterario, sospinto, con una birra in mano tra i problemi famigliari e il suo talento, tra il letto vuoto e un bancone di un bar, una cella e la macchina da scrivere, continuando ad affogare in attesa di una parola che lo salvi da tutto questo.

Del resto gli editor detengono un potere di cui spesso non sanno calcolare la forza e ogni biglietto di rifiuto è una lama che lacera l’orgoglio dello scrittore: «Date una spiegazione. Qualcuno poteva anche impiccarsi per una stronzata del genere. Si ricordavano di Breece D’J Pancake? E di John Kennedy Toole?». A ogni lettera di rifiuto, corrisponde un nuovo racconto inviato a un altro editore, una nuova speranza affidata alle poste nazionali, ma anche un nuovo passo verso il disfacimento della sua speranza.
Il suo rapporto con la scrittura è doloroso; a ogni parola, riga, pagina deve dimostrare innanzitutto a se stesso di possedere talento: «Non mi veniva niente. Sapevo di aver perso l’ispirazione. Avrei dovuto passare il resto della vita a verniciare case. La terza notte buttai giù un paragrafo con la macchina da scrivere e lo cestinai subito dopo. La quarta notte iniziai un racconto». A ogni riga deve riscoprirsi scrittore, fino a quando nella sua cassetta delle lettere arriva la risposta di una redattrice, Betti De Loreo, che crede in lui, lo benedice con la sua approvazione, e pur rifiutando il suo racconto lo esorta a continuare a scrivere. Ma del resto lui ha già deciso, ha sacrificato la sua vita per questo, scrivere con sincerità, cercando «di metterci palle e cuore e sangue». Lui continuerà a provarci, dalla bolgia dannata della sua esistenza, bussando contro le porte del paradiso, nella speranza che qualche editore finalmente lo lasci entrare, prima che fuori faccia buio, troppo buio per riuscire ancora a vedere.
 

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