“Ci sono cose che una non può fare scalza” di Margarita Garcìa Robayo

di / 11 ottobre 2011

Ci sono mondi colossali, assordanti, psichedelici.
Terre di Las Vegas dove il fragore è il solo suono in onda. Città iridescenti, stroboscopiche, in cui ogni abitante emana calore, fermento, energia. Dove ogni vita sembra uno spot. E ogni firma una formula.
E poi accanto a quelli, arrancano altri binari. Deboli, ossidati, un po’ afoni.
Strade anonime per gente sottotono. Senza nomi eclatanti, lavori eccellenti, visi spianati. Gente senza.
Che nasce e muore a basso volume.
Cespugli spiumati in cui si addentrano passi minuscoli, fatti di briciole e ben poche impronte.
Sterpaglie di donne incolori, con capelli stopposi, mani spellate e occhi infeltriti che guardano sempre lo stesso paesaggio. Immobile, come loro.
È proprio a questi volti che si rivolge il libro di Margarita Garcìa Robayo Ci sono cose che una non può fare scalza (Marcos Y Marcos).
Blogger e giornalista al suo esordio narrativo, l’autrice risveglia identità sfumate, seminterrate, arcipelaghi di solitudine che non rientrano nelle nostre cartine.
Scrive per far parlare, assegna corpo e voce a una schiera di donne invisibili.
C’è Rina, che s’impunta davanti allo schermo per ascoltare il trionfo di Susy, la sua eroina dei telequiz, mentre l’amica Carmen stilla commenti su ogni quisquiglia, sulla tovaglia viola o sulla cerniera dietro la schiena, perché sa che il loro tempo è fatto di frattaglie, di cose piccolissime da solennizzare.
C’è Julia, che scorrazza nudissima nella sua stanza e non teme di farsi vedere. Vorrebbe che Arturo restasse a dormire, ma deve spartirlo con chi lo ha sposato.
C’è Miriam  che ha perso il marito, che non ha più nessuno con cui assaggiare la tv e allora chiama la figlia e strozza le dita tra le maglie del cavo, come se in quel filo potesse impiccarsi. Le sussurra al telefono tutto il suo buio, ma lei ha già troppi problemi per mangiarne anche altri.
C’è Sofia che aspetta Rodrigo, ingoiato dall’Africa da più di un anno, Sofia che chiede le sue braccia, il suo profumo e nell’attesa si abbarbica a quello degli altri: di un barista che le tocca il maglione, di uno sconosciuto con cui occupare il bagno e uno scorcio d’ossigeno.
C’è Susy – Bambina Prodigio, con la chioma sconquassata e la faccia un po’ scialba, che non è mai stata bella ma almeno era intelligente e su questo terreno ha voluto camminare, inanellando concorsi e anche giochi a premi, perché conosceva sempre la risposta esatta, tranne quella necessaria a far sorridere il padre.
Finché qualcuno non ha smesso di applaudirla e l’ha trovata brutta e perfino patetica.
C’è un condominio di storie, di donne che non dividono lo stesso palazzo, ma gli stessi piani inclinati.
Ogni percorso richiama un altro, ogni personaggio è implicato in un’altra vicenda, legato a un altro nome dell’album, per sangue, destino oppure per caso.
Come fili stesi al sole, le loro trame si prendono per mano e la scrittrice riesce a far vibrare i dettagli, a far urlare un vecchio vestito o un frigorifero vuoto. Dipinge ciascun universo con tratti brevissimi ed accecanti, con un linguaggio semplice e fotografico. Un’istantanea di silenzi e momenti in sordina, dove la singola donna porta il peso dell’altra, del suo essere grigia o trasparente.
Ogni nome è una targa, una triste provincia di mediocrità, che nasconde nei suoi tramonti una luce mai vista e una bellezza inespressa.
E questo libro ha la forza di farla cantare.

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