“L’isola di Sukkwann” di David Vann

di / 14 novembre 2011

Roy ha tredici anni. Una scuola, una pagella ogni semestre, una sorella piccola e lagnosa.
Due genitori incespicati in un divorzio e una stanza al caldo per ripararsi dalle nuvole.
Incolla i suoi giorni uno sull’altro, sente il corpo che cresce, nei pantaloni e nel petto. Impara gestire le prime carezze, agli altri e a stesso. È una vita incasellata la sua, normale, dopo tutto.
Una moderna famiglia dilaniata, le cui schegge non pungono i piedi.
Ma una sera, in una cena tra tante, plana addosso al ragazzo un invito: il padre, lontano da troppo, gli chiede di seguirlo, di trasferirsi con lui per un anno intero, pieno di neve e nient’altro.
Vuole portarlo a cacciare, a spezzare la legna, a vedere un albero come motore del fuoco e non come accessorio del cielo. Vuole insegnargli il sudore, il baratro di ogni minuto. Vuole ripescare suo figlio, perché ha nuotato fin troppo senza di lui.
Roy accetta e la sua adolescenza deraglia sull’Isola di Sukkwann, destinazione finale che dà il titolo al primo romanzo di David Vann.
È un polmone appeso sul mare. La casa è un rifugio di tegole. Il gabinetto è imbrattato e distante. L’odore raffermo è quasi maligno.
Roy e Jim guardano in alto, fin dal mattino, perché il tempo decide per loro. E col vento allagato è difficile muoversi. Bisogna munirsi. Di cibo e pazienza.
L’isola li abbraccia, li offende, li strozza.
Assurge in breve al loro ring, al loro teatro, al palco dove padre e figlio si vivono accanto, si vivono addosso.
Diviene l’occasione per conoscersi davvero. O per capire che non si conoscono affatto.
Erano realmente quelle le intenzioni di Jim? O Roy è solo un turista in quella vertigine?
L’autore dipana le due esistenze in parallelo, come se nonostante quella vicinanza estrema, nonostante siano entrambi i soli cittadini di quel nulla, non sapessero e potessero mai toccarsi davvero.
La terra trema, la terra rivela, si tramuta nello specchio/spettro delle loro mancanze, della pelle che invecchia e non si recupera. Di un rapporto sberciato in cui ognuno non sa leggere l’altro.
Il mondo di Jim è troppo scuro e frustrato, in cerca di una donna da non tradire, di in progetto da non strappare e quando piange la notte Roy non capisce, prova solo imbarazzo e vorrebbe assordarsi. Perché le paure di un padre graffiano ancora più delle proprie.
Roy comincia a soffrire in mezzo a quel buio, ma ha promesso di restare. E per Jim, forse, il resto non conta.
Vann dipinge a dovere un confronto serrato e spesso impossibile, una convivenza di solitudini, con colori asciutti, dialoghi secchi, col timbro selvaggio di un luogo bello e scontroso, con cui ogni scambio sottintende una lotta. Un luogo che sommerge silenzi e dissotterra conflitti. Fino alla resa.
Il ritmo è variabile. Come i moti celesti. Più calmo all’inizio e poi più incalzante, come una rapida, una slavina, come la vita che frana nel giro di qualche parola.
Un romanzo struggente, che non concede sorrisi, che prende a schiaffi un affetto primordiale e poi gli mangia il respiro. Insieme ad Auster, McCourt, Turgenev, Kafka e moltissimi altri, Vann ci propone la sua dimensione, la forza spezzante di una relazione essenziale e delicatissima.
Senza smettere di scrivere la fragilità di ogni cosa.

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