“Uomini che odiano le donne” di David Fincher

di / 15 febbraio 2012

Devo confessare di non avere ancora letto il libro Uomini che odiano le donne, di Stieg Larsson.
Di più: avevo verso quest’opera letteraria una sorta di pregiudizio negativo, derivante dall’insofferenza per l’esterofilia conclamata dei lettori italiani, i quali hanno da tempo bisogno di leggere un nome straniero in copertina per decidere (finalmente) di comprare un libro.
Mi sono avvicinato al film con la medesima diffidenza, ma pochi minuti in sala sono bastati per cambiare radicalmente idea. Perché c’è tanta roba. Non solo la seducente vicenda di una famiglia di insospettabili alle prese coi loro demoni interiori.
C’è un thriller di 158 minuti con una trama ricca dei classici colpi di scena che tengono alta l’attenzione, ma anche attori di chiaro talento. C’è il carisma magnetico di Daniel Craig, calatosi alle perfezione nei panni di Mikael Blomvkist, giornalista della rivista Millennium. Celebre per il suo rigore, è stato condannato per diffamazione. C’è una strepitosa Rooney Mara, che presta volto e nervi a un personaggio dark misteriosamente complesso, quello di Lisbeth Salander, una geniale hacker tatuata, estremamente anticonformista, diafana eppure piena d’energia, che stupisce lo spettatore e lo tocca dentro dalla prima all’ultima scena, per la capacità di entrare nei panni di vittima e carnefice con la medesima credibilità.
C’è una suggestiva e coerente scenografia, che avvicina questo film più a certe atmosfere di Friedrich Dürrenmatt che ai tipici romanzi gialli nordici modello Larsson.
Ci sono dialoghi ben misurati, con personaggi che non dicono troppo né poco, sprofondati in un baratro esistenziale che denuncia la solitudine dell’uomo moderno.
I loro profili sono intriganti al punto che il vero giallo non sta nella soluzione dell’enigma, ma nell’intero percorso investigativo, che mette in scena un autentico saliscendi emotivo, costruito con climax e anticlimax da manuale.
Ci sono poi buone canzoni: da “Immigrant Song” dei Led Zeppelin a “Orinoco Flow” di Enya.
C’è, in buona sostanza, la capacità tutta americana – dobbiamo riconoscerlo – di girare un film come Dio comanda, curando l’insieme come il particolare, fino ad amalgamare immagini, musiche e suggestioni in modo armonico, donando così una vita autonoma all’organismo/opera d’arte, mentre mi pare di poter dire che in Italia permane la colpevole tendenza a puntare decisamente sulle capacità individuali/istrioniche degli attori principali coinvolti nel progetto.
La maestria del regista David Fincher (Seven, Fight Club, The Social Network) e dello sceneggiatore Steven Zaillian consiste nel saper raccontare questa storia presentandocela da punti di vista diversi, così che fino alla soluzione del rebus non si riesce a rispondere alla domanda: «Che fine ha fatto Harriet Vanger?», una giovane scomparsa quarant’anni prima, in un contesto omertoso come l’isola immaginaria di Hedeby, raggiungibile solo attraverso un ponte, il Susanne’s bridge.
Da quel triste giorno ogni anno la ferita viene riaperta da un dono inatteso, che ha però un significato preciso per chi lo riceve.
È proprio l’esigenza di capire finalmente quale sia la verità a spingere il ricco industriale Henrik Vanger a dare mandato a un giornalista investigativo esperto e capace come Blomvkist di provare a risolvere il caso…
Ricordiamo che di questo film esiste anche una versione per così dire europea (in Italia è uscito nel maggio 2009) con regia di Niels Arden Oplev, trasmesso in tv da La7 proprio nei giorni scorsi.
Un vero peccato che Larsson non sia vissuto abbastanza per vedere quanto successo hanno avuto i suoi lavori…

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