“Fai bei sogni” di Massimo Gramellini

di / 2 aprile 2012

«Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi».

Fai bei sogni di Massimo Gramellini è un romanzo sul e attraverso il dolore. Il dolore per la perdita dell’insostituibile figura materna, a soli nove anni. Il dolore che ti scava dentro un vuoto («Sentii un cucchiaio di ghiaccio penetrarmi nella pancia e svuotarmela tutta») e lo riempie della paura di essere abbandonato e di non essere amato.

Confesso un certo scettico pregiudizio nell’approcciarmi alla spettacolarizzazione del lutto e della sofferenza sotto forma, in questo caso, libresca, fatta balzare, grazie all’“aiutino” (o “aiutone”) dell’amico Fabio Fazio, in testa alle classifiche dei libri più venduti in una settimana. A Che tempo che fa, lo scrittore e giornalista aveva taciuto le circostanze della morte della madre, nascoste a lui stesso per quarant’anni da parenti e amici, ai lettori per 185 pagine, nonché agli spettatori affinché l’intervistato non venisse sopraffatto in diretta dalla commozione.
Solita strategia di marketing per costringere ad acquistare il romanzo? Eppure io ho indovinato subito…

Non c’è dubbio che la morte sia uno dei grandi temi della letteratura. Scrivere costituisce un modo per dare forma al dolore, per contenerlo e per arrestare il disordine del proprio cuore e della propria sofferenza. Ha una funzione catartica. Ero poco più che adolescente quando mi imbattei nella straziante storia di Paula di Isabella Allende e in Va’ dove ti porta il cuore della Tamaro. Poi a scuola fu la volta di Pascoli con la morte del padre e Gadda alle prese con quella del fratello e della madre.

Perché parlare in pubblico dei propri lutti?
Forse il successo di questi sfoghi autobiografici va cercato nella capacità che solo gli scrittori hanno di trovare le parole giuste per esprimere emozioni che altrimenti rimarrebbero attaccate in un grumo che si piazza in gola e ti toglie il respiro.
Gramellini in questo è maestro. Senza scadere nella lacrimosa autocommiserazione e nei facili sentimentalismi, non rinunciando alla sottile ironia che lo contraddistingue, il vicedirettore de La Stampa ci parla di una verità scomoda che ha sempre cercato volontariamente o meno di rimuovere nella sua vita, in questo aiutato dal padre e da altri complici a lui vicini. Alla luce di questa terribile rivelazione, l’autore ripercorre la sua esistenza dall’infanzia di «bimbo istupidito dal dolore che continua a negare la morte di sua madre» alla difficile adolescenza, dagli amori, fino agli inizi della carriera giornalistica.
Ogni fase della sua vita ci mostra una persona perennemente alle prese con la sua congenita inadeguatezza: «La mia specialità consisteva nel trovarmi a disagio ovunque fossi».
Sarà solo quando il suo demone interiore, che da ragazzino aveva chiamato Belfagor, e che lo tormentava di domande (una su tutte «Con tutte le mamme che c’erano, perché era morta proprio la mia?»), si dissolverà, che da orfano diventerà finalmente uomo e la rabbia si potrà mitigare con la possibilità del perdono, perché «Non essere amati è una sofferenza grande, però non la più grande. La più grande è non essere amati più».
Lo svelamento finale si trasformerà anche nell’occasione di rivalutare la figura del padre, che, nonostante la sua dura scorza, gli ha voluto bene a modo suo e malgrado tutto è rimasto con lui.
In questa che Gramellini stesso ha definito «un’opera di sartoria psicanalitica», il lettore potrà apprezzare la sincerità della narrazione, sia pur in forma romanzata, delle proprie vicende e fallimenti perché non si impara dall’oggi al domani ad amare e nella vita non vale il «giochino dei “Se”».


(Massimo Gramellini, Fai bei sogni, Longanesi, 2012, pp. 210, euro 14,90)

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