“Le assetate” di Bernard Quiriny

di / 2 luglio 2012

Signore e signore. Ragazze e ragazze, ecco a voi l’enorme spettacola di questa lettura. 

Capisco la possibile imbarazza, ma non si tratta di un refuso molesto. Non goccia fetente smarcando il sudore. Non sogna foreste in cui mimetizzarsi; non ne ha bisogno.

È una frase volontaria, anche un po’ impettita. Si gloria soltanto del trampolino di questa emissione, delle scabre intenzioni della sua pelle. Una pelle che sputa sul ruvido, che tutta d’un tratto comincia a gracchiare davanti all’articolo “il”, che si arrossa e si abbrutisce se nel raggio di cento chilometre avvista sentore di maschio. Una vera e propria allergia concettuale.

È tutto qua il senso del libro di Bernard Quiriny. Sono Le assetate (Transeuropa) di questo romanzo a scandire la forza di un’ucronia. È un’allostoria, un fantascenario, un calderone impossibile in cui si ipotizza che in terra fiamminga, in Belgio esattamente, dopo un’accesa rivoluzione a caccia di streghi, si sia insediato uno Stato al femminile. Un regime totalitario, assorbito e governato prima dalla Pastora Ingrid e in seguito da sua figlia Judith, che dopo aver ucciso Oloferne tra le crepe della Bibbia, ha trafitto ogni altra traccia di virilità orbitante. Un Paese strangolato di mistero, pieno di campi deserti come domande mai irrigate di risposte. Mostruosamente inconoscibile perfino per le sue cittadine.

Figurarsi per gli stranieri, che non possono osservarlo, che vivono solo di accessi negati, brandelli sberciati di vecchie leggende passate in varechina. E tutto il resto è ridda di voci, uncinetti di gossip incapaci di stendersi al sole. Finché sei sonori esponenti dell’intellighenzia parigina non riescono a sfondare la barriera, ottenendo dalle autorità il permesso di valicare l’alieno confine, senza riprendere né fotografare. Ovviamente. E senza neanche chiedersi l’ora. Ognuno con i suoi pregiudizi, con le sue forme di mistico entusiasmo, soprattutto quando si tratta di Alvert e Lotte, le due donne in visita nel loro Impero ideale.

Parallelo alle impressioni dei turisti, si dipana il diario di un’abitante belga, con due figlie immolate alla causa del Regno e un bimbo clandestino da nascondere alla legge. Una suddita modello, stando a quello che galleggia a bordo facciata, tanto da essere scelta nel piccolo gruppo che può porgere un dono a Judith nelle celebrazioni del suo anniversario.

Ma appena due dita sotto la scorza, dove il rigore tira un po’ il fiato, parlano i fiumi di dubbi e paure. E si muove il lato nero del regime, quello di tutti gli assolutismi. Locali del peccato e del contatto fugace, dove quasi ogni sera si reca la Pastora, in attesa che qualche donna del gregge si consacri alle sue mani, con un tannico retrogusto di Bunga Bunga o di Berlino anni ’30. Locali dove si può bere, fuori le mura del proibizionismo diurno, perché la sobrietà cala assieme alla luce. E ancora endemiche perfidie, invidie serpeggianti che solo il sesso non più debole sa innaffiare con pazienza.

Stormi di vittime che sono gli uomini: respinti, distrutti, marciti nei fondi di ospedale dov’è meglio non entrare, perché la pietà non infetti le infermiere. Uomini annullati, asserviti, martellati quando sono di pietra e umiliati nella carne in ogni occasione.

Cancellati, come i termini di genere maschile, in una Contea del contrappasso in cui tutte le pene subite dalle donne in millenni spinosi di subordinazione, sono rimborsati con interessi di sangue e brutture infinite, perché almeno secondo l’autore, la crudeltà non sempre porta la barba. Una provincia degli eccessi, di ribaltamenti prospettici grotteschi e surreali, in cui i “maschietti” sono assurti ai nuovi ebrei, ai nuovi negri, ai nuovi diversi. E le donne al comando danno il meglio del peggio, hanno sete di ripicca e si scolano i loro antagonisti, spossessandoli di tutto e arrogandosi i loro stessi terribili vizi.  Quelli della supremazia, di chi processa anche i riflessi dello specchio, temendo di leggerci un contorno sovversivo.

Il pregio evidente di questo libro, ironico e ficcante con moderazione, è quello di aver capovolto provocatoriamente la dialettica sessista, che resta comunque quella servo-padrone di hegeliana fattura, in cui bisogna schiacciare per sopravvivere. Linguaggio pulito, senza decori o virtuosismi che distrarrebbero dalla realtà. Perché l’oggetto prevale sullo stile. Perché ciò che conta è l’impronta veridica del reportage. È dimostrare che costruire un’egemonia sulla discriminazione è sempre eternamente un errore. Ma questo le donne lo sanno fin troppo bene.


(Bernard Quiriny, Le assetate, trad. di Stefania Ricciardi, Transeuropa, 2012, pp. 324, euro 15)

                

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