“Il mio anno preferito” di Nick Hornby

di / 10 agosto 2012

«Ancora non so dire se il calcio sia un gioco molto più semplice di quanto io pensi, o molto più complicato. Quello che so, è che ancora non l’ho capito bene».

Se oggi ci sono Sky, i tornelli, i divieti, la tessera del tifoso e lo stadio-centro commerciale, un motivo ci sarà. Ma non è stato sempre così. C’è stato un tempo, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, in cui gli stadi erano sempre pieni, la gente amava cecamente le proprie “bandiere”, la propria squadra e viveva tutta la settimana aspettando la domenica, il match-day. I miti della working class erano ragazzoni robusti e scattanti che indossavano maglie di lana colorate, senza sponsor e con una numerazione che andava dall’uno all’undici: gente che simulava poco e che metteva tanta grinta e passione in quello che faceva, anche quando i campi di gioco erano resi impraticabili dal fango, soprattutto in Inghilterra. Il rituale era sempre lo stesso: colazione abbondante, predica del prete, pranzo e via, una sciarpa di lana avvolgeva il tuo collo e la mano di tuo padre ti accompagnava per i vicoli della città. Il biglietto si prendeva al botteghino il giorno stesso, nonostante le scazzottate fossero presenti anche in quel periodo e i giovani non se la passassero proprio bene.

Nick Hornby, già autore di Fever Pitch, High Fidelity e About a Boy, pubblica nel 2001 My Favourite Year: A Collection of Football Writing (in italiano Il mio anno preferito, edito da Guanda). Il libro è in realtà una raccolta di dodici racconti scritti da altri autori/tifosi – che diventano tredici con quello dello scrittore inglese – in cui ognuno descrive la stagione calcistica più bella e più emozionante che abbia mai vissuto. La realtà e le squadre sono ovviamente d’oltremanica e si passa da grandi nomi come Chelsea, Sunderland e Leeds a piccole realtà di seconda o terza divisione, semi sconosciute per chi mastica poco questo mondo. L’importanza del libro non sta tanto nel sapere come ha ottenuto la promozione il Bristol City, nel descrivere l’emozione e lo scetticismo intorno al miracolo Raith Rovers nella premier league scozzese o le delusioni del St. Albans City. L’obiettivo dell’autore si concentra sul tentare di fare capire cosa c’è di così coinvolgente ed esaltante in un campo di calcio dove ventidue persone corrono dietro a un pallone, per andare oltre il gioco e spiegare cosa spinge le persone (magari di diversa estrazione sociale, religione, credo politico, ecc.) a ritrovarsi unite sotto un unico colore, come in un ritorno al medioevo.

Già Pasolini aveva fatto un tentativo simile quando sosteneva che: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro».

Qualcosa di sacro (ma anche di profano…) in effetti c’è e ci sarà sempre, in un ambiente dove chi si fa il segno della croce ha comunque riti scaramantici da non rimandare mai. Ma la sacralità e l’essenza di questo sport sono soprattutto nella partita vista sotto la pioggia, accanto ai tuoi amici, la trasferta in treno, l’orgoglio (effimero?) di poter dire questa è la mia città, il panino allo stadio, il feticismo del biglietto, l’abbraccio al gol, le grida di gioia e le urla di disperazione vera. Tutto ciò, unito ad altri dettagli importanti della vita di un tifoso/credente, è narrato alla perfezione nel libro di Nick Hornby, il quale, nel suo racconto, non parla della sua nota passione per l’Arsenal, ma dell’assurda storia del Cambridge United nella stagione 1983/1984. Il calcio è molto più di un gioco, è il sogno di ogni bambino.

Dunque, non perdetevi questo libro fatto “pallonaro”, guardate al più presto il film Fever Pitch – Febbre a 90°, e poi provate a ridire che il calcio è solo un gioco se ci riuscite. Intender non lo può chi non lo prova.


(Nick Hornby, Il mio anno preferito, Guanda)

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