“Nessun requiem per mia madre” di Claudiléia Lemes Dias

di / 1 ottobre 2012

Spesso le copertine deviano. Quelle dei libri, ovvio. Sono ideate al solo scopo di attirare la mano, sono il canto di Circe che invita a entrare a palazzo, per farsi arraffare in cambio di qualche moneta. E trasformano i passanti in meri acquirenti. Il solito viso di ragazza impantanato tra le foglie, che osserva fuori dal suo nascondiglio e intriga a tal punto che viene da chiedersi cosa sia più interessante, se il posto da cui guarda o quello verso cui spinge gli occhi con urgenza.

In questo caso la scelta è diversa. La prima impressione è lucida, ammiccante, ai limiti del patinato. Anche qui campeggia una donna, che però non si sente chiamare “ragazza” da troppe stagioni per rammentare quale fosse l’ultima. Affogata nel suo rosa rarefatto, nel pastello del foulard, in una tinta che non intenerisce affatto, né la posa né la smorfia. Una presenza/assenza, quasi bizantina, nel mosaico del possibile. Una signora evidentemente agiata, a suo agio nel distacco dalle cose, rivolta altrove, verso isole più pure, più nobili, più meritevoli anche del povero lettore. È lei il nucleo propulsivo del libro di Claudiléia Lemes Dias Nessun requiem per mia madre (Fazi Editore, 2012).

La storia è impugnata da una gran burattinaia di corte, la stessa che immaginiamo dominare il sipario del romanzo. Genuflessa De Benedictis, madre, matrona e carceriera dell’intera vicenda. 

Tutto parte dalla fine, dalla sua morte in tarda invenerabile età, momento estremo in cui il suo terzo e ultimo figlio Franco sembra iniziare a tirare le somme. Non c’è granché da piangere al suo funerale. Se non il dolore per non aver potuto, per non aver saputo costruire un rapporto diverso. Il dolore di cui pochi possono fasciarsi. Perché Genuflessa è vissuta per decidere, gestire, pilotare. Manovrare con innato dispotismo, dittatoriale e inamovibile. Soffocata e soffocante. Ma per conoscerla davvero abbiamo bisogno della sua voce, del suo bosco narrante, che non esita a sbarcare. Si è sposata con un uomo buono, troppo umile e sensibile per poterlo stimare. Un bidello gentile che nel palato del suo cuore diventa amorfo e fastidioso. Una zavorra da inghiottire e neutralizzare. Lei che era destinata a grandi cose, con la sua classe congenita, il suo piglio sovrano. Lei che voleva immolarsi a Dio e si è congiunta a un marito al solo obiettivo di procreare perfezione.

Purtroppo non è stata accontentata. Ha partorito tre bambini e allevato tre sudditi. Stefano, asservito al punto da non saper fare, da non sapersi muovere, da essere un neonato di oltre cinquant’anni, tanto stupido da non poterlo dire, appollaiato sul divano ad annuire, a sentirsi respirare, sempre col dovuto consenso. Aldo, mellifluo e incatenato; appena un po’ più furbo da ritagliarsi qualche spazio, senza mai intaccare fiducia o aspettative della propria genitrice. E poi Franco, il più piccolo e intelligente. Quindi il più infelice. Di troppi suoi pensieri per potersi assoggettare. Fino alla prova finale, la sfida ciclopica. Franco s’innamora, ma senza etichette né curricula approvati. S’innamora di una ragazza brasiliana, negra, straniera, imbandita di tutti gli stereotipi inseribili. E l’accordo si sfalda, Genuflessa esplode, tempestando di perfidia e dispetti quella coppia convinta. E credendosi sempre investita di una missione divina. Ricondurlo all’ovile, all’altare dei suoi desideri. È Genuflessa a ripercorrersi, a tracciare le ragioni del suo torto, con la naturalezza di chi non può capirlo, di chi prima a sua volta ha subito il male come se fosse prescritto e che non può non risputarlo, mascherato da amore profondo.

Il libro è governato da un monologo imponente, ideale per un adattamento teatrale, dal timbro vibrante di Genuflessa, dal tango affilato delle sue ombre, da scambi pungenti e mai scontati. Dal ritratto di un abisso. Quello di un genitore in cui poi inciampano i figli. Fino all’ultimo battito. Perché un corpo può seppellirsi, ma il nero che ha soffiato intorno ai suoi margini prosegue oltre l’addio. Oltre l’incenso e i fiori freschi. Oltre una messa che non può bastare, che non sconta i peccati alla cassa. Un graffio che urla sotto metri di requiem.
 

(Claudiléia Lemes Dias, Nessun requiem per mia madre, Fazi Editore, 2012, pp. 160, euro 15)

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