Elmerindo Fiore e la sua “Trilogia del Tempo”

di / 20 ottobre 2012

Trilogia del Tempo di Elmerindo Fiore somiglia a una grande cattedrale con gli archi rampanti, i pinnacoli, gli archi di scarico, le vetrate. Galleggia sul vuoto come la Notre Dame dell’Île de la Cité. Vi somiglia per tinte, atmosfere e per aspirazione all’assoluto. Scritta agli inizi degli anni Settanta, Trilogia del Tempo presenta già, in nuce, tutti i caratteri ricorrenti delle opere di Fiore e i nuclei proble-mate-matici sui quali si interroga, con quella cura amorevole verso l’esistenza che è propria di ogni poeta. Se ti affacci dalla balconata con balaustra, ti coglie una vertigine, sebbene ci sia tutta quella oscurità in fondo, morbida come ovatta. Trilogia del Tempo non è certamente un’opera di intrattenimento, né una lettura lieve; è un’esperienza misticheggiante che va alle radici dell’esistenza, tentando di percorrere le strade (tre!) del Tempo. Il libro, prefato da Giovanni Fontana, teorizzatore della poesia pre-testuale (poesia che precede le lingue e si esprime attraverso i più disparati linguaggi), si articola, infatti, in tre parti: “Frammenti per un’ipotesi sulla nascita del tempo”, “L’acqua il fuoco e una ballata in tono maledetto”, “Frammenti per un’ipotesi sulla morte del tempo”.

Nel primo capitolo, Fiore seziona il fuoco che è genesi di tutto, riprendendo il presocratico Eraclito, e racconta la caduta nel Tempo dell’uomo «disseminato sulla terra a forma umana (miracolo dell’ira e principio delle cose)»; l’uomo non è qui ridotto a mero cocktail di terra e di fuoco ma, platonicamente, è congiunto al sogno tramite l’ «amore / laccio ombelicale», scarico dell’onirico. Dentro a quelle viscere sugose, soffia l’amore che è tensione conoscitiva. Non c’è per l’uomo altra catena a cui aggrapparsi. L’amore, come dice Galimberti, rifacendosi a una probabile etimologia della parola, è «a-mors, toglimento di morte». «Ridammi al vento», si sente gridare, «se si apre il cerchio delle luci/ uccidi i sogni e ridammi al vento»: se non posso più aggrapparmi alla catena del sogno, ridammi pure alla cenere. Eppure l’uomo nel Tempo non ha le ali: «Io non oso porgermi a questi baratri / la strada è scoscesa e non ho l’ali / spogliami fratello (…) / affinché io possa riprendere respiro/ e ridammi al vento / perché con il respiro si congiunga».

Fiore, come fosse un cronista, un daimon che sta nell’orecchio di quell’uomo a cui capitò la ventura (sventura?) di ritrovarsi nel Tempo, riporta in versi-note da telegrafo lo «stupore dell’essere vivo / stop / carnale / stop / alla ricerca dell’oggetto». Quest’individuo non può fare a meno di andare, appunto, «alla ricerca dell’oggetto», di prescindere, cioè, dalla sua individualità, dal soggetto: è una tensione atavica, che custodisce dentro. Anche per Fiore è così: nella sua opera l’io che in poesia tradizionalmente racconta le sue vicende, perlopiù liricamente, si avvilisce fino a scomparire: Fiore squarcia la tela dell’io e resta in attesa che il mondo con i suoi giochi carnali e preternaturali si palesi. Non è Elmerindo che osserva, ma è il suo puro pensiero, o meglio, uno specchio metafisico, incastonato tra l’aorta e il ventricolo destro: «Sotto i passi la terra si restringe / la rapirò con lo specchio».

Di grande intensità sono, inoltre, le scene che popolano questa sezione. La scena del lavarsi che canta di una tragica e violenta abluzione: «Mani trafiggersi con l’acqua / ti assecondano le labbra nella lingua / la terra è liquida»: questi versi sono “La tinozza”di Degas capovolta. C’è un nesso eloquente tra questo Degas capovolto in versi, del Fiore ventenne, e una sua opera degli anni della maturità, “Plein air”, che rappresenta un quadro naturalistico capovolto su un cavalletto.

Di grande bellezza è anche la “scena dell’orinare”: come non pensare a un chiaro riferimento a “La Pisseuse” di Picasso? Anche qui il gesto, di una semplicità e lordura disarmanti, diventa rappresentazione delle forze della natura; una natura che nasce e ingrassa come rigurgito del Tempo, che c’è, cioè, che esiste grazie ad Esso (la lettera maiuscola è d’obbligo perché in Fiore il tempo oscilla tra la figura mitica di Urano e la sua raffigurazione umanamente percepibile, l’orologio).

Nell’opera di Fiore è imprescindibile il confronto con l’arte visiva, dato il suo impegno di performer e la sua grande, grandissima capacità di creare immagini, altari di divinazione, affastellati, accatastati sulla pagina, in una smania demoniaca di conoscenza, in un horror vacui. Ma la più bella delle scene di questa sezione è quella “del vomitare, femminile con grido”: «Posso vomitare sul tuo cuore / posso / figlio delle mie vertebre / ti ho dato in un vomito e ti ho maledetto». Vomitare deriva dal latino vomere, che significa eruttare, emettere: proprio questo è il significato della scena, che è la rappresentazione di un parto, «quando il grido è largo sui piedi»: dolcezza e strazio si mescolano a creare un sapore agrodolce che Fiore predilige.

Fiore scopre nella Trilogia del Tempo il gusto del tono tragico (mai lirico!), che a tratti si mescola con l’ironia e vira in direzione del grottesco e in giochi linguistico-sonori alla maniera di Palazzeschi: «Ballo di lulù / chiodo schiaccia chiodo / tempo schiaccia tempo / lulù (lilì) / blu notte». Giorgio Agamben scriveva: «Dove finisce il linguaggio, comincia non l’indicibile, ma la materia della parola»; questo è quanto mai vero nell’opera di Fiore che con la parola canta l’indicibile e misura le capacità della parola stessa. Ma quella di Fiore non è parola che dice, è parola che evoca. In un tempo caratterizzato dalla smania di comunicazione, dalla sovrabbondanza dei messaggi pubblicitari, Fiore riscopre il tempo della sospensione e dell’evocazione. Qui l’io non ha più spazio: levitano gli oggetti, i pensieri, le parole. Ma in questa condizione si perdono i tradizionali punti di riferimento: allora gli opposti diventano identici e riaffiora il caos.

Il Tempo con la sua trilogia (vita, acme, morte) solo apparentemente si sviluppa in senso verticale. Sembrerebbe che fosse inscritto in una dimensione cronologica; ma non è così: il Tempo diventa il Cerchio. Allora la morte è, in realtà, l’inizio della vita. In questo la poesia di Fiore si lascia molto ispirare da Hölderlin, con la sua ansia di fare emergere la verità delle cose, senza il mezzo del logos. Hölderlin aveva scritto nell’Iperione: «Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l'uomo […] Essere uno con tutto ciò che vive! Con queste parole la virtù depone la sua austera corazza, lo spirito umano lo scettro e tutti i pensieri si disperdono innanzi all'immagine del mondo […] un dio è l'uomo quando sogna, un mendicante quando riflette […]». La poesia di Fiore non riflette, non filosofeggia: umilmente si attiene alla sua visione, come un dono caduto chissà da quale cielo. In fondo è proprio questo che fanno i poeti: «I poeti nelle strade / a raccogliere immagini».

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