[RomaFilmFest7] Quarta giornata

di / 13 novembre 2012

Di Matthew Modine, presente a Roma come presidente della giuria che assegnerà il premio alla miglior opera prima o seconda, si sa che è un attore che si è sempre riservato il privilegio di scegliere quali film fare, senza mai scendere a compromessi – salvo rare eccezioni – con il lato più commerciale di Hollywood. Pellicole diverse l’una dall’altra, dalla lunga collaborazione con Abel Ferrara fino all’ultimo Batman di Nolan, Modine sarà sempre ricordato dal grande pubblico per due ruoli: Birdy, nel film omonimo di Alan Parker, Grand Prix a Cannes nel 1985, e, soprattutto, per il soldato Joker nel capolavoro di Stanley Kubrick Full Metal Jacket. Proprio il film del 1987 rivela in questa settima Festa del film di Roma una passione meno conosciuta della star: la fotografia. Nel Foyer Sinopoli è infatti possibile apprezzare l’esposizione Full Metal Jacket Diary Redux, una selezione di circa cento scatti che Modine ha realizzato nei due anni di lavorazione del film di Kubrick. Fotografie prese sul set, che ritraggono momenti delle riprese e della vita del cast. Splendide fotografie, per lo più in bianco e nero, che rivelano, con l’aiuto delle didascalie, i segreti della lavorazione di quel film immortale. Come lo scenario della battaglia di Hue e del duello finale finale contro il cecchino vietnamita, girata interamente negli stabilimenti della Bekton Gas Works in Gran Bretagna.

C’è un cecchino anche nel nuovo film di Michele Placido, anzi, ne è il centro e gli dà il titolo. Il cecchino è il primo film francese del regista di Romanzo Criminale chiamato oltralpe dagli sceneggiatori Cedric Melon e Denis Brusseaux, colpiti proprio dal film tratto dal romanzo di De Cataldo, per realizzare un classico poliziesco alla francese con il supporto di un cast di stelle di primo livello del cinema transalpino come Daniel Auteuil, Matthieu Kassovitz e Olivier Gourmet, con l’aggiunta degli italiani Violante Placido e Luca Argentero.
 


Una banda di rapinatori di banche sta per portare a termine l’ennesimo colpo quando la squadra guidata dal capitano Mattei (Auteuil) li circonda bloccandone la fuga. Solo l’intervento di un cecchino assoldato dai malviventi e appostato su un tetto riesce a impedire l’arresto lasciando via libera alla fuga col bottino dei criminali. Mentre Mattei indaga sul cecchino, identificandolo come Vincent Kaminski (Kassovitz), i banditi sono costretti a un cambio di programma nel loro piano di fuga a causa del ferimento di uno di loro (Argentero), e si rifugiano a casa di un medico corrotto (Gourmet) che si prende cura del ferito. Mentre l’indagine del capitano va avanti emergono gradualmente dettagli che conducono sempre più lontano da Parigi, verso l’Afghanistan, esattamente in quella squadra speciale in cui il figlio di Mattei aveva perso la vita in circostanze misteriose alcuni anni prima. Nel frattempo i banditi devono fare i conti con un traditore, qualcuno che, dopo aver denunciato Kaminski alla polizia, si è appropriato della refurtiva e ha iniziato a eliminare i suoi ex soci con un sadismo crudele.

Troppo, troppo, troppo. C’è troppo sul piatto ne Il cecchino. E l’Afghanistan, e il cattivo buono di Kassovitz che non uccide ma ferisce soltanto gli avversari, e il poliziotto che sa distinguere tra giusto e legale di Auteuil, e il cattivo più cattivo dei banditi che si scopre psicotico torturatore. Tutte figure che intasano, ingolfano, stancano in fretta in un film di neanche novanta minuti che fatica a scorrere. Peccato perché con i soldi francesi il regista de Il Grande Sogno e Vallanzasca realizza un film ineccepibile sul piano dell’immagine, con l’ottima fotografia livida di Arnaldo Cantinari, e retto dal terzetto di attori francesi che offrono una buona prova, anche se il confronto Auteuil-Kassovitz sembra una brutta copia del duello Pacino-De Niro in Heat di Micheal Mann. Se il problema di fondo dell’intera produzione di Placido è che si crede un “Autore” e non solo un regista, in questa trasferta francese non si trova certo aiutato da una sceneggiatura che difetta di profondità e slancio e finisce per riproporre cliché triti o svolte improbabili e improponibili (l’inutilità della natura sadica di seviziatore e serial killer di donne del traditore, ad esempio).

Peccato, perché Il cecchino parte da basi più che solide ma finisce per svaccare completamente nel finale, con scene al limite del ridicolo (su tutte, Auteuil che si mette a sparare sulla folla con un fucile di precisione per bloccare un fuggitivo, noncurante dei passanti). Se debitamente ridimensionato, però, affrontandone la visione come un film di genere e poco altro, Il cecchino risulta comunque un discreto polar dotato di tensione narrativa.

Nella sezione Prospettive Italia si segnala l’opera seconda di Aureliano Amadei, già autore dell’autobiografico Venti sigarette, vincitore del premio Controcampo italiano a Venezia nel 2010. Amadei arriva a Roma con un documentario sull’ascesa e caduta di Giancarlo Parretti, Il leone di Orvieto, affarista italiano ex cameriere che avvia la sua fortuna in Sicilia, con la presidenza del Siracusa Calcio, trascorre un giorno come proprietario del Milan, tra Farina e Berlusconi, arriva fino alla cattura del leone della Metro Goldwin Mayer, leggendaria casa di produzione cinematografica, con cui produrrà in pochi mesi film come Thelma & Louise e Rocky V, per poi crollare in uno dei più grandi crack finanziari della storia del cinema. Presentato in concorso, il film di Amadei spicca per la venatura leggera, aiutata dalla naturale verve comica di Parretti, che attraversa tutta la ricostruzione, sospinta da una colonna sonora fatta di classiconi della musica leggera e da spezzoni di classici della commedia all’italiana posti a commento dei passaggi salienti. Un’ottima occasione per ricostruire la vicenda di un fallimento che fece storia, tra intrecci con la politica e il mondo dell’alta finanza in cui Parretti si è mosso come una rumorosa anomalia.


Delude invece il secondo film italiano presentato in concorso ufficiale, Il volto di un’altra, scritto (con Monica Rametta e Gianni Romoli) e diretto da Pappi Corsicato. Quattro anni dopo i fischi veneziani riservati al Seme della discordia, il regista napoletano arriva a Roma con un atto di accusa alla società dell’immagine e alla televisione.
 


Bella (Laura Chiatti) è un volto noto del piccolo schermo che, in compagnia del marito chirurgo René (Alessandro Preziosi), conduce un programma sulla chirurgia estetica. Cacciata dal network, che ritiene il suo volto non più attraente per il grande pubblico, rimane coinvolta in un incidente automobilistico quando un WC in viaggio verso la discarica sul camion guidato da Tru-Tru (Lino Guanciale), manutentore della clinica di René, si sgancia dal rimorchio e le si schianta sul parabrezza, sfigurandola in maniera apparentemente irreversibile. L’incidente diventa l’occasione per lei e il marito di riconquistare l’attenzione dei media e di realizzare una puntata speciale del loro programma in cui Bella sarà protagonista di una ricostruzione facciale completa. Sarà lei quel volto nuovo che il network cercava. Nel frattempo, la Terra è minacciata da un asteroide, ma la stampa è più interessata a seguire le vicende di Bella, rinchiusa nella clinica del marito in attesa dell’intervento.

Con uno stile surreale volutamente ai limiti della caricatura, Corsicato fornisce una critica dell’Italia contemporanea in cui nulla si salva dal gorgo del denaro e della voglia di apparire, neanche l’inizialmente idealista Tru-Tru, pronto a convocare uno sciopero generale degli idraulici per migliorarne le condizioni lavorative, o la madre superiora di Iaia Forte, più interessata al denaro e alle purghe che al contatto col divino. La messa in scena carica di colori e di rimandi ad altro cinema – dall’Almodovar de La pelle che abito al Grande Lebowski, dall’espressionismo tedesco al cinema giapponese, fino alle vecchie pubblicità di Carosello – diverte e colpisce.

Corsicato ha un suo stile ben preciso, fatto di contaminazioni tra generi e ammiccamenti al pubblico (il dialogo sul bianco e nero ne è chiaro esempio) e con Il volto di un’altra ne dà ampiamente prova. Dimentica solo un particolare, non di poco conto: sviluppare una sceneggiatura all’altezza dell’espressione registica. Pur partendo da un soggetto più che valido e originale, Corsicato e i suoi collaboratori non sono riusciti a sviluppare una trama capace di evitare ripetizioni e banalità. Una volta chiarito sin dai primi minuti che quello della televisione è un brutto mondo, che tutti inseguono il denaro o il quarto d’ora di celebrità e che il pubblico, anziché semplice vittima, è complice della barbarie televisiva con la sua idiozia, niente di nuovo viene aggiunto alla trama, se non la scontata redenzione di Bella che avrà sì il volto di un’altra, alla fine, ma non come ci si attendeva. E se la pioggia di feci umane che colpisce tutti durante la diretta dell’intervento di Bella vuole essere metafora di ciò che è la televisione, siamo nel pieno della banalità. E se vuole essere provocazione, siamo ancora nel banale. Se vuole fare sensazione fine a sé stessa, invece, diciamo che ci riesce, ma rimane, comunque, un espediente ben da poco per far parlare di sé.

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