“Non capisco un’acca”: a tu per tu con Maurizio Ceccato

di / 24 novembre 2012

Parlare dei libri che leggiamo significa, in fondo, averci capito qualcosa. Ma quando il libro in questione si intitola Non capisco un’acca (Hacca, 2012), forse vuol dire che questa conclusione vuole essere messa quantomeno in discussione.
Un progetto che riflette sulla lingua mentre usa le immagini come specchi o contraltari della parola. Ma anche un album che esalta il valore delle immagini come linguaggio. Per capire qualcosa in più su questo interessante esperimento di contaminazione che è Non capisco un’acca, abbiamo chiacchierato con il suo eclettico autore, Maurizio Ceccato, che ci ha fatto percorrere alcuni sentieri di un libro dalle tante biforcazioni.

Non capisco un’acca sembra voler essere un percorso all’interno del linguaggio, un gioco sulla possibilità di comunicazione attraverso l’avvicinamento del codice visivo a quello linguistico. Come nasce l’idea di questo libro/album e, soprattutto, la scelta di sperimentare al suo interno l’uso di questa lettera?

Il Tommaseo nel suo dizionario definisce: «Saper due acche, sapere qualcosa, ma poco a quel ch’altri sa. Non ho che dire un’acca, è lo stesso che dire: non ho che dir nulla». Sono rimasto stupito nell’apprendere e nello scoprire che questo modo di dire non aveva mai solleticato alcun letterato o poeta nel passato ma anche nel recente Secolo breve. Questo vuoto ha innescato la mia curiosità e mi sono appassionato a stendere delle regole come in un gioco, che mi avrebbero permesso di dare forma a questa idea.
Alla partenza c’era anche l’intesa con la casa editrice Hacca, della quale sono il designer, che aveva creduto in un progetto ambizioso come questo. L’editrice Francesca Chiappa mi ha infatti lasciato carta bianca e io l’ho ricambiata con un titolo che si legasse a doppio nodo come in un gioco di specchi.

Nel testo si incontrano immagini diverse, da quelle che con maggiore intensità riempiono la pagina bianca a quelle che sembrano non volerla invadere; dalle immagini nascoste nei labirinti alle illusioni ottiche. Quanto le immagini non vogliono far capire un’acca e cosa ha portato a utilizzare immagini così diverse tra loro?

Il gioco che volevo mettere in campo per il lettore, anche il più distratto, era complesso. Non far dialogare le filastrocche, nel loro ritmo serrato e apparentemente incomprensibili (tutte le parole sono prese da vocabolari della lingua italiana corrente), con l’iconografia o la rappresentazione visiva che le conteneva. Se si usasse una matematica filosofica direi che 1+1=3. Nel senso che il significato della narrazione, non coincidente con le immagini, se sommata o confrontata darebbe al lettore una terza possibilità interpretativa, non pedissequa né didascalica. Ho disseminato come nei rebus e nell’enigmistica un significato che non è immediatamente riconoscibile ma l’utilizzo di un immaginario comune come quello delle stampe vittoriane usate per la pubblicità di fine Ottocento o dei libretti di istruzione rende la pagina fruibile senza bisogno di approfondire. Tra le varie combinazioni esiste un comune denominatore iconografico contrappuntato da immagini a frattali di natura optical ovvero “illusioni” che nella loro astrazione riconducono alla mutevole H muta.

Ma Non capisco un’acca è, fin dal suo incipit, una narrazione intorno alle filastrocche e le immagini. Ma chi è, o qual è, il soggetto di questa narrazione?

È interessante ritrovare questo leit-motiv legato alla narrazione. In effetti una segreta narrazione esiste ma sta al lettore trovarla. Posso dire che ciò che lega tutto l’album è, oltre a una impossibilità dei personaggi di avere un’uscita di sicurezza, quello di essere maledettamente melodrammatici. 

Al contrario di quanto si sa, sembra che in questo libro l’acca sia tutt’altro che muta, anzi, al contrario delle immagini, sembra fare molto rumore. Quanto può far rumore l’acca e quanto l’aiuta in questo l’inserire le parole in una struttura così particolare come la filastrocca?

Se penso a una narrazione, solitamente mi trovo di fronte a una linea retta con incipit, svolgimento, climax e finale dove i personaggi seguono un senso unico che li porta da A a B. In Non capisco un’acca ho voluto usare quella narrazione breve e desueta come la filastrocca ritmata coadiuvata da una immagine. Questo rende superficialmente fruibile il gioco tra parola e immagine avvicinando persone di differenti età. Apri il volume in qualsiasi punto senza avere la sensazione di esserti perso qualcosa nelle pagine precedenti ma procedendo anche in autoreverse. Lo diceva anche Calvino: ogni narrazione è un’archi-tettura potenzialmente modulare e combinatoria, un accattivante baccanale di attaccature e riattaccature dove tutto può succe… ehm, ACCAdere.

(Maurizio Ceccato, Non capisco un’acca, Hacca, 2012, pp. 96, euro 16)

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