“Lettere d’amore a Stalin” di Juan Mayorga

di / 27 novembre 2012

C’è un telefono davanti a me. Questo posso dirlo. Non so se il telefono squilla. Ha squillato forse. Forse squillerà. Qualcuno attende qualcosa. Qualcuno attende qualcuno. C’è un uomo che disperatamente si aspetterà. Ci sono delle attese che disperatamente saranno prive di uomini in attesa. Io e il mio contrario. Io e i miei denti stretti. Poi sono costretto a stringere anche il resto del corpo. Ho chiesto a mia moglie di recitare per me. Le ho chiesto di recitare la mia persecuzione. Dobbiamo raggiungere la perfezione, per questo recitiamo la persecuzione. Il suono di una penna che scrive s’impenna nell’aria soffocante di ombre. La telefonata che tarda. La telefonata che sto aspettando. Il suono che continua a scrivere. Il suono che scrive sul mio corpo. E io sul suo. Questo suono ha molti corpi e ogni corpo ha il colore del latte e come latte si sparge sul pavimento. Lettere bianche e il telefono nero su carta bianca. Carta da lettere. Lui ha chiamato. O chiamerà. O sta chiamando. Eppure non c’è suono oltre quello delle parole che si scrivono senza carta. Evidentemente ci deve essere un impedimento alla telefonata. C’è stato un messaggio lasciato a metà. Una telefonata non conclusa. C’è un filo spezzato. Sto seguendo questo filo. Una fila di lettere bianche che compongono il nome: Stalin. Le mie lettere a Stalin che (de)scrivono le lettere del nome Stalin. Le mie lettere che danno vita a Stalin. Stalin al mio fianco. Stalin sulla mia scena. Stalin sul mio corpo. Mia moglie evapora. Rimane Stalin in casa Bulgakov. Stalin ha visto le mie opere e le stima. Incomprensibilmente ne nega la diffusione. Espatriare. Sarebbe poi come espiantare il cuore della Russia dalla madre (patria). Ci deve essere un disegno che non può essere comunicato. Una linea telefonica che evidentemente non funziona. Allora scriverò ancora. E ancora. Lui non può essere contrario. Lui è con me. Eppure mi nega. Esiste una volontà che non sa volermi. E allora io devo spogliarmi, scrivermi, e imbucarmi in centinaia di lettere. Tutte avranno lo stesso destinatario. E tutte saranno in attesa, loro sì, dell’ultima lettera, quella perfetta. Per questo la perfezione è il mio persecutore. Stalin è solo la forma che la mia perfezione ancora non ha raggiunto.

È la forma che Juan Mayorga ha dato alla follia di Bulgakov. E che Tommaso Tuzzoli ha messo in scena in modo visionario, ma sempre tenacemente calibrato, mai slegato dalla fisicità dei corpi che patiscono. Sulla scena la teca di cristallo del delirio ha i baffi di Stalin e parla con la bocca di Peppe Papa. Il corpo squassato dal peso di lettere scritte come graffi sulla pelle ha le sembianze di Bulgakov e si dibatte nei panni di Silvio Laviano. La rigidità attonita della realtà di fronte a ciò che delirio appare è affidata alla moglie di Bulgakov (Sabrina Jorio). La follia non può smettere di raccontarsi, come acqua si infiltra tra un corpo e l’altro, in un corpo e nell’altro. Per puro accidente si tratta di folli, di attori o poeti. La follia li attraversa tutti, passa attraverso Bulgakov, ne squassa l’essenza e va ancora oltre, fino a una sala sotterranea di Napoli, quasi cento anni dopo. Gli attori non potevano che rimanere colmi della follia di Bulgakov. Gli spettatori non potevano che applaudire calorosamente.

Perché la follia ripete ossessivamente, distrugge minuziosamente, ma è condannata a essere sempre possentemente presente.

 

Lettere d’amore a Stalin
di
Juan Mayorga
regia di Tommaso Tuzzoli
con Sabrina Jorio, Silvio Laviano, Peppe Papa

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