“Un uomo di passaggio” di Ben Lerner

di / 16 dicembre 2012

Jonathan Franzen ha dichiarato che Un uomo di passaggio è «divertente e intelligente, vivissimo e originale in ogni sua frase». Secondo The New Yorker il romanzo si costruisce grazie a «frasi e battute meravigliose quasi in ogni pagina». Se non si ha la penna di Franzen o l’autorità della testata statunitense, si prova un timido disagio quando, terminando la lettura, ci si scopre un po’ perplessi.

Un uomo di passaggio di Ben Lerner è la storia di un americano giovane, amante della letteratura, borghese e dipendente dagli ansiolitici (ma dai?) che vince una borsa di studio per Madrid. Nel vecchio continente, complice la disponibilità di denaro e la lontananza, il programma di studio si inceppa tra hashish, alcol, contemplazioni di opere d’arte sotto l’effetto di stupefacenti, falò e risvegli frastornati (ma dai?). Nonostante il cliché, le prime pagine sono davvero «divertenti» nel senso che il personaggio ha una notevole dose di ironia: incapace di vivere «una profonda esperienza artistica», il «presunto scrittore» (per sua ammissione) compone poesie nonostante le comprenda solo se i versi sono inseriti nella prosa, cioè «quando le barre sostituiscono gli accapo e ad arrivare non è tanto quella particolare poesia, quanto l’eco di una possibilità poetica». 

Per chi abbia provato almeno una volta la confusione linguistica che si sperimenta vivendo all’estero, ma anche per chi non l’abbia provata, calarsi nei vari «lost in translation» è «divertente». Se Isabel (una delle due ragazze di cui si innamora l’uomo di passaggio) parla di qualcosa, diventa automaticamente la protagonista di tante storie possibili: «Forse aveva raccontato di quando nuotava nel lago da bambina, oppure che il lago le ricordava di quando era bambina o magari mi aveva chiesto se da bambino mi piaceva nuotare […]». La questione della traduzione infatti è il nucleo del romanzo che fa della comunicazione (dal messaggio implicito nelle opere d’arte, alle relazioni interpersonali, allo scandaglio del proprio io) il tema centrale del suo sviluppo. Ma poi il libro si perde o forse si apre a un’autoreferenzialità costruita a suon di battute pseudocervellotiche a volte ostinate: «il flusso della predicazione» probabilmente sta per «sintassi», e frasi come «la sostanza stessa dell’eccetera» o «provai la forma del dolore, ma non il dolore» risuonano forzate se seguite da una narrazione cronachistica e calante: «Mi chiese delle poesie e io estrassi quattro quaderni dalla borsa e glieli diedi spiegando che erano tutte di quella settimana e mi sarebbe piaciuto sapere quali erano le sue preferite». Questo sbalzo di registro riflette un problema di dispersione: si ha l’impressione che l’autore si soffermi molto su descrizioni studiate a tavolino a discapito di frasi impegnative («Era molto peggio di una sensazione angosciante, io ero l’angoscia») che possono risultare didascaliche e approssimative. 

C’è poi nel romanzo l’incursione della Storia, con l’attentato alla stazione di Atocha, ma anche l’episodio terroristico è sfruttato in termini “egocentrici”: in preda a una catarsi il giovane americano contatta i genitori e confessa le sue “marachelle”, così accade che, dopo un po’, si possa nutrire un vero e proprio disinteresse per questo personaggio (autobiografico?) dall’io gigante.

Viene da chiedersi se in un romanzo che parla di traduzione non ci sia stato un problema di traduzione o se davvero in originale il libro si avvii alla conclusione così: «Dissi a Isabel che saremmo andati a cena da Zalacaín come se io ci andassi tutte le sere e lei disse che ne aveva sentito parlare ma che doveva andare a cambiarsi. Le dissi che non c’era tempo, anche se in realtà ci sarebbe stato, e che era bellissima, ma le dissi che era bellissima con una certa condiscendenza…»

E niente, i due vanno a cena, ma lui non ha portato con sé gli ansiolitici e allora lui si agita e si domanda come mai proprio lui ecc ecc.

(Ben Lerner, Un uomo di passaggio, Neri Pozza, 2012, pp. 192, euro 16)

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