“Lettino” di Martha Medeiros

di / 24 gennaio 2013

In fondo ogni donna è come se fosse plasmata con diverse tonalità di cera rosa, esteriormente e interiormente. Punti di rosa che variano dal pastello al confetto, dal carne al fuxia, e la protagonista di Lettino (Beat, 2012), Mercedes, racconta, per quasi tre anni, al suo interlocutore psicanalista, il Dottor Lopes, le sue verità rosa shocking, colore che pigmenta anche la carezzevole copertina.

Mercedes odia «parlare di bambini, donne di servizio e saldi», e i suoi «tacchi alti e l’eye-liner» celano in realtà una non femminilità ammessa sin dal principio: «Penso come un uomo, ma sento come una donna. […] Sono autoritaria, audace e un vero disastro in cucina» perché «la vita domestica è per i gatti». È una quarantenne benestante, un’amante della città, insegnante e pittrice, orfana di madre, sposata con Gustavo e madre di tre figli. Racconta di non saper piangere, «il freezer della famiglia»: «mi sento vittima per essere stata privata di qualcosa che l’umanità considera vitale per l’equilibrio emotivo dell’essere umano» ma «non credo che sarei una persona più espansiva se avessi convissuto ininterrottamente con una madre sorridente e affettuosa, come quelle delle pubblicità in tivvù. […] L’unica cosa che so, è che sono stanca di seguire le regole stabilite dalla maternità, […] ho bisogno di un po’ di castigo, visto che le bambine senza madre di solito vengono sempre perdonate. […] Non so se concordo con la leggenda secondo la quale tutti gli amori diventano amicizia e che desiderare più di questo sia segno di immaturità. C’è una logica in tutto questo, ma non c’è palpitazione».

In nome di questa palpitazione e della fuga dalle «cose tiepide» la sua vita cambierà forma, colore e tepore…: «Vivere deve essere sconvolgente, è necessario che i nostri angeli e i nostri demoni siano svegli […] Ciò che non ci fa muovere un muscolo, che non ci fa fremere, sudare, sbottare, non merita di far parte della nostra biografia».

Il rapporto coniugale con Gustavo era «in quella fase in cui ogni giorno sembra domenica»: «la domenica è troppo benevola. Non c’è la malizia del sabato, né la determinazione del lunedì. […] Non c’è euforia, ma nessuno è nemmeno triste. […] non ci sono sorprese né delusioni». Con lui invece saranno «40 gradi all’ombra»…, un picco emotivo che, a prescindere dalla durata, porterà Mercedes a interrompere di netto e con onestà quell’“agonia domenicale”, ad avere l’approvazione e il rispetto dei figli, ad assaporare il gusto agrodolce delle lacrime, a non disdegnare il rossetto rosso.

Leggendo assisteremo alla trasformazione di una donna che, mettendosi in discussione dal profondo e coinvolgendo la nostra emotività di lettori a partecipare di tutti i suoi baratri, finirà con lo sciogliere i nodi che l’avevano costretta a rivolgersi alla psicanalisi: «Una volta, quando mi sentivo triste, […] volevo la trasformazione immediata: dalla stazione Tristezza alla stazione Hip-hip-hurrà, senza scali e senza attese. Vivere è ben altro che una camminata, non c’è la piacevole opzione di scegliere dove scendere. Bisogna attraversare tutto». E Mercedes lo farà «nella piena luce del giorno», accettando con serenità che «tutto è transitorio».

Abdicando il difficile e a volte ingrato ruolo di giudice severo, e analizzando la purezza che in realtà riverbera in ogni avvenimento narrato, chiunque concepisca l’esistenza come qualcosa da mordere e baciare con entusiasmo, amerà questo romanzo. Purché la fame del lettore non sia «mai stata di cibo, ma di vita vissuta».

D’altronde «il mondo progredisce, progredisce, progredisce e quando lo analizziamo, nell’atto finale, si presenta immutato, fermo da secoli in un’unica e incorruttibile verità: continua a essere l’amore la cosa più rivoluzionaria che esista». E proprio la protagonista aggiunge un’altra saggia chicca: «Riverivo la solitudine perché credevo di conoscermi a sufficienza. Da soli ci preserviamo e basta. La nostra esistenza, per valere qualcosa, si conferma soltanto attraverso gli altri».


(Martha Medeiros, Lettino, trad. di Cinzia Buffa, Beat, 2012, pp. 125, euro 7)

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