[Oscar 2013] “Lincoln” di Steven Spielberg

di / 25 gennaio 2013

Venticinque anni dopo Il colore Viola e diciassette dopo Amistad Steven Spielberg torna a confrontarsi con il tema del razzismo e della schiavitù negli Stati Uniti. Lo fa con Lincoln, ritratto degli ultimi, intensi mesi del mandato (e della vita) del sedicesimo inquilino della Casa Bianca. Nel 1864, gli Stati Uniti sono spezzati in due dalla guerra di secessione tra Unione e Confederazione. La presidenza Lincoln e la volontà di abolire la schiavitù del governo sono la causa della sollevazione degli stati del sud, basati su un’economia agricola in cui gli schiavi di colore svolgono un ruolo fondamentale. Nel 1863 era stato approvato il Proclama di Emancipazione che aveva liberato tutti gli schiavi degli stati confederati, il primo passo verso la totale abolizione della schiavitù cui si giungerà con la promulgazione del XIII emendamento della costituzione degli Stati Uniti, approvato in via definitiva dalla Camera nel gennaio 1865. Sono queste, la lotta alla schiavitù e la guerra di secessione, le due tratte principali lungo cui si muove il film di Spielberg. Non un biopic in senso classico, ma un film su una legge e sull’uomo che l’ha resa possibile.

Muovendosi lungo il sentiero della Storia, Spielberg ricostruisce con sapiente equilibrio la risoluzione di uno dei punti più controversi della storia degli Stati Uniti che solo oggi con la presidenza Obama stanno arrivando a una, parziale, assoluzione per il loro peccato verso la popolazione afroamericana. Non c’è un minuto di troppo in Lincoln, una sviolinata eccessiva, un dramma superfluo. Pochi minuti della battaglia di Jenkins’ Ferry in apertura (violenza cruda e semplice, di gente che lotta per non farsi uccidere, uomini privi di addestramento militare che si prendono a cazzotti in una pozza di fango mentre la telecamera li bracca da vicino), poi spazio alla politica dei palazzi, alle intese dei lobbisti, agli accordi con i conservatori e i radicali, tutto in interni, con la fotografia magistrale di Janusz Kaminski, che ha lavorato praticamente a lume di candela nella maggior parte delle scene, e in sottofondo la vita privata del presidente, l’amore per la moglie, consigliera discreta con la ferita profonda nel cuore della morte di due figli bambini e il terrore che il più grande, Robert, riesca a ottenere dal padre il permesso per potersi arruolare e andare a fare la parte che sente essere suo dovere nella guerra.

Partendo dal libro “Team of Rivals” di Doris Kearns Goodwin, adattato per lo schermo da Tony Kushner, Spielberg dirige con l’abituale sapienza un film molto parlato e lontano dalle sue più recenti produzioni, puntando su un’ineccepibile ricostruzione storica e politica e un cast di altissimo livello, con uno straordinario Tommy Lee-Jones che anima lo sboccato Thaddeus Stevens, il più radicale nelle pretese di libertà per gli afro-americani, e un altrettanto grande James Spader, irriconoscibile nei panni del lobbista Bilbo, che con i suoi assistenti insegue con mille espedienti i voti per il XIII emendamento e a cui è affidato il compito di alleggerire il film con una sfumatura di commedia. Su tutto, svetta il presidente. Il suo pacato e magnetico carisma cuce e compone la storia, convince e persuade gli avversari, guida gli Stati Uniti e il film. Come nella riunione di gabinetto in cui con abile oratoria, partendo da un aneddoto privo di apparenti collegamenti, seduce i suoi ministri, in un unico, lungo piano sequenza, sulla necessità dell’impegno per la libertà di chiunque.

La prestazione di Daniel Day-Lewis è monumentale, nel senso vero, di monumento. Costruisce una statua vivente di Abraham Lincoln, gli dà vita in ogni sfumatura, si trasforma nel fisico, acquisendo la rigidità del presidente, cessa di essere l’attore per diventare Lincoln. Si dice che durante le riprese non abbia mai smesso di parlare con l’accento del Kentucky, che volesse essere chiamato “The President” dagli altri membri del cast sempre, al punto da arrivare a firmarsi così anche negli sms che inviava. Un’immedesimazione che rasenta la mimesi, punto più alto di quel lavoro di radicale meticolosità che caratterizza le interpretazioni del due volte – e probabilmente presto tre – premio Oscar Daniel Day-Lewis.

(Lincoln, Steven Spielberg, Storico, 2012, 150’)

 

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