“Banks” di Paul Banks

di / 28 gennaio 2013

I grattacieli di New York, esoscheletri metallici di quartieri, il profilo grigio di Manhattan. Prima della musica, le immagini. Le foto. Banks: un disco rock come un album fotografico. Si, perché l’autore degli scatti fotografici e della musica è il medesimo: Paul Banks, per l’appunto. Mr. Banks è il leader degli Interpol, una band che non deve essere presentata in quest’articolo vista la sua fama e il suo ruolo nel panorama indie-rock degli anni Duemila. Li chiamiamo brevemente in causa perché le istantanee di Banks rappresentano i contesti metropolitani malinconici e cupi che il gruppo di New York ha raccontato in maniera magnifica nei suoi album, soprattutto lo storico esordio Turn on the Bright Light (che ha da poco festeggiato il decennale dell’uscita). Oltre alla lieve depressione urbana, in Banks non ci sono altri raccordi e richiami con la band-madre.

Nel secondo lavoro solista il cantante americano abbandona lo pseudonimo Julian Plenti. Era infatti il 2009 e Banks pubblicava Julian Plenti is… Skyscraper (ovvero grattacielo, giusto per rimanere in tema). Sorprese e colpì piacevolmente la critica; un po’ meno i fan più agguerriti degli Interpol, vista la vocazione elettronica e sperimentale che coinvolgeva non poche tracce. A tre anni di distanza, Banks segue la meta di Skyscraper e la supera. Abbandonati i momenti strumentali più eterogenei – come le trombe in “Unwind” e le varie sezioni d’archi – questo disco risulta più compatto e coeso del predecessore, senza perdere nulla dal punto di vista melodico. Anche perché le danze sono aperte dall’accattivante “The Base”: elettronica e campionamenti perfettamente fusi con il corredo ritmico e melodico delle chitarre, ritornello indelebile e una performance vocale non indifferente. E quell’intermezzo un po’ folle che non guasta. E così, se “The Base” tranquillizza da subito l’ascoltatore, “Over My Shoulder” – altro pezzo capolavoro – lo esalta piacevolmente. Più dolce e soffusa “Arise, Awake”: è un rallentamento necessario prima di “Young Again”, orecchiabile primo singolo pop. Dopo la strumentale “Lisbon” (il giramondo Banks sembra avere una predilezione per i paesi spagnoli e portoghesi, vista la presenza di “Madrid Song” in Skyscraper), ecco i riff di “I’ll Sue You” e della torva “Paid for That”. Con “Another Chance” ritorna un vecchio espediente ascoltato anche nel primo disco: usare dei campionamenti di dialogo e parlato come accompagnamento. “No Mistakes”, con la sua carica, riscuote l’ascoltatore portandolo al crescente finale di “Summertime Is Coming”.

Ascoltando più d’una volta l’album senza pregiudizi e inutili paragoni, la malinconica bellezza del lavoro viene fuori. Uno spunto interessante: l’ultimo disco degli Interpol (uscito nel 2010) si chiamava semplicemente con il nome dei suoi creatori: Interpol. Proprio come nel caso di Banks. Che la presa di coscienza cupa e sofferta affrontata dai quattro musicisti di New York con il loro disco più complesso sia avvenuta anche per il loro leader? La musica sembrerebbe dire di si, gettando più ombre che luci sul futuro rock della Grande Mela.

 

(Paul Banks, Banks, Matador, 2012)

 

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