[Oscar 2013] “Vita di Pi” di Ang Lee

di / 23 febbraio 2013

Se tuo padre, dietro suggerimento di un caro amico estasiato dalla piscina comunale di Parigi, decide di chiamarti Piscine Molitor, l’unica cosa da fare per evitare le inevitabili prese in giro a scuola è distrarre i compagni il primo giorno riempiendo la lavagna di cifre decimali successive a 3,14 per far capire a tutti che ti possono chiamare semplicemente Pi.

Inizia sostanzialmente con questo aneddoto, il primo di una lunga analessi che occupa bene o male tutto il film, Vita di Pi del regista taiwanese Ang Lee, reduce dai non brillanti risultati di Motel Woodstock (2009). La storia, basata sull’omonimo romanzo di Yann Martel, è infatti raccontata dal Pi adulto a uno scrittore, arrivato a casa sua, su indicazione dell’amico paterno di cui sopra, in cerca di materiale per un libro. Si sviluppa dunque il racconto della vita di Pi (interpretato dal giovane attore indiano Suraj Sharman, al suo esordio sul grande schermo), in cui si dice di come il padre fosse proprietario di uno zoo a Pondicherry, nell’India francese, dove il giovane e curioso Pi viveva con i genitori e il fratello. Talmente curioso e sensibile che inizia a seguire, oltre all’induismo, anche il cristianesimo e l’islamismo. In seguito a problemi economici, il padre decide di trasferirsi con famiglia e zoo in Canada, per vendere lì gli animali e cominciare una nuova vita.

Tuttavia la nave mercantile giapponese su cui si erano imbarcati viene affondata da una tempesta nel mezzo dell’oceano Pacifico. Solo Pi riesce a salvarsi, e si ritrova a bordo di una lancia di salvataggio insieme a una zebra, un orango e una iena. La iena uccide i due animali prima di essere a sua volta sbranata da Richard Parker, la tigre del Bengala dello zoo, sbucata incredibilmente sulla coperta della scialuppa.

Grazie anche a una strabiliante esibizione delle capacità della grafica digitale, Ang Lee ci mostra la sopravvivenza del giovane Pi in mare aperto (che si protrarrà per 227 giorni): non si tratta solo di sfidare l’oceano, ma di convivere nello spazio limitato della lancia con la tigre. Pi si divide infatti tra la necessità di evitarla e l’istinto di prendersene cura, perché è anche grazie alla presenza dell’animale che il ragazzo, che ha sempre mostrato più di un occhio di riguardo verso gli animali e l’equilibrio del cosmo in senso lato, si dota della disciplina fondamentale per non perdere la testa e passare così i giorni.

Finalmente al sicuro, in ospedale Pi è visitato da due uomini che, per conto di una compagnia di assicurazioni giapponese, lo interrogano circa il naufragio della nave; a questi il ragazzo è costretto a raccontare un’altra versione, più verosimile ma più tragica (e che coinvolge anche il personaggio del cuoco aggressivo interpretato, nell’unica scena in cui compare, da Gérard Depardieu). È un finale che gioca quindi con la funzione e l’ambiguità della narrazione, senza però lasciare da parte il riferimento alla fede e al suo mistero.

Candidato a 11 premi Oscar, tra cui miglior film e miglior regia (statuetta quest’ultima già vinta dal regista taiwanese con I segreti di Brokeback Mountain), Vita di Pi è un romanzo di formazione atipico, in cui il giovane protagonista, per via di una viva curiosità e di una naturale propensione all’empatia col mondo esterno, ha già in sé tutti gli strumenti, spirituali prima ancora che pratici, per cavarsela in una situazione estrema sia dal punto di vista psicologico sia da quello fisico. Si tratta di una grande favola e Ang Lee la ambienta in un mondo naturale spettacolare, di cui l’uomo non è il centro.

In definitiva, anche se a volte si potrebbe pensare che se le immagini non fossero così appaganti la placidità del ritmo rivelerebbe la noia di alcune sequenze, ci troviamo davanti a un bel film, girato bene e tecnicamente ineccepibile; si potrebbero sollevare dubbi sull’appropriatezza di una tale mole di nomination, ma i soldi del biglietto li vale senz’altro.
(Vita di Pi, di Ang Lee, avventura, 2012, 127’)

 

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