[IlLive] John Grant @Auditorium Parco della Musica, 12 aprile 2013

di / 15 aprile 2013

Il microfono sembra non funzionare. Demodula la voce alzandola troppo. Problemi con il mixer. Devia la performance vocale. Il microfono ha un ottimo tempismo: sceglie una delle canzoni più belle di Grant: “Queen of Denmark”. Il brano inizia, con Grant al piano, e il microfono si alza di tono. Il cantautore se ne accorge. Va avanti. Comunque, da professionista. Anche perché tutti pendono dalle sue note immense. Il climax diventa siderale, e nonostante il problema tecnico, l’applauso e il boato dell’Auditorium Parco della Musica si chiude come un abbraccio sopra John Grant e il suo capolavoro. Un applauso che vuole dire: Tranquillo, non era nulla. Tranquillo, la forza delle tue parole, la bellezza della melodia, la meraviglie delle emozioni ci sono arrivate dritte in petto. Anche questa volta. Grant lo capisce, sorride al pubblico. Ringrazia: «Ciao belli». Poi si corregge: «Grazie belli». Esce. Ritorna – purtroppo – solo per un unico bis: “Marz”. Prima del finale, il live romano è stato dominato dai pezzi dell’ultimo lavoro del cantautore americano, ormai emigrato islandese: Pale Green Ghosts. I battiti, i sintetizzatori e i suoni elettronici pulsano e riempiono la Sala Petrassi.

Il supporto della band – tutta made in Island – è notevole, come altrettanto pregevole è il loro talento. Sono il tramite con cui le tinte e i colori di Pale Green Ghosts prendono vita, arrivando in maniera più diretta rispetto all’ascolto del disco. Ma ovviamente, il palco è tutti per lui. John Grant. Massiccio e possente, statuario nel prendere le redini della scena e immobile nel donare la voce. Una voce che dal vivo lascia sempre il segno: conforta e continua a sorreggere chi la conosce dall’exploit del capolavoro di tre anni fa – Queen of Denmark – e che da lì non ha più smesso di seguirla, e folgora chi l’ascolta per la prima volta. Si parte, e Grant non imbraccia la chitarra. Abbandona il microfono solo per sedersi sullo sgabello piazzato davanti alla tastiera. Accenna raramente qualche movimento dance. Bello sentire direttamente come siano nati i pezzi, a chi siano dedicati. Toccante il racconto sul senso di “Glacier” e di come il muoversi per i ghiacciai sia la splendida metafora di alcuni tormenti interiori. O di “Sensitive New Age Guy” dedicata a un amico scomparso, o di come “I Hate This Town” sia una delle sue predilette.

Per il resto, i pezzi forti del disco sono stati anche quelli che dal vivo hanno colpito di più: “GMF” (Grant nel presentare la band, indicando il chitarrista, ci comunica che è lui il vero «figlio di puttana»), “It Doesen’t Matter to Him, “Pale Green Ghosts” e “Blackbelt”. Si, un po’ di rammarico per il solo bis: qualche altro pezzo dalla Regina l’avremmo ascoltato volentieri. Ma vivere un live di Grant dà sempre la sensazione d’aver assistito a qualcosa di magico e unico. Come la sua musica. Da riascoltare sempre e poi un’altra volta. E non c’è spazio per altro.

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