“Ferito a morte” di Raffaele La Capria

di / 20 aprile 2013

Ferito a morte comincia in mare, nel silenzio ovattato della profondità, o forse nella controra di una camera assolata di Posillipo. Un inizio impressionista, impetuoso, disseminato di indicazioni e dettagli, suggeriti, mai assoluti. E allora da subito ci si stranisce, quando la spigola, sfuggita a un corpo inerme e alla scaltrezza di un freccia, trova rifugio dietro a un cassetto di quella camera a precipizio sul mare, presso il sontuoso e decadente Palazzo Donn’Anna.

È come un tuffo carpiato, perfetto, pericoloso, audace.

L’autore è stato anch’egli un ottimo tuffatore, ne conosce il metodo, i rischi e rapporta al suo romanzo questa dinamica. La prima pagina di Ferito a morte è un salto dal trampolino perfetto, potente e azzardato. Più si va in alto e più si va lontani dalla tavola, che resta lì immobile a guardare e a giudicare il salto di sfida dello scrittore che si lancia.  

Da subito si capisce che non vi è nulla di cronologico nella linea narrativa, ma che un continuo andirivieni di momenti e sensazioni la farà da padrone, un gioco della memoria e di scatole cinesi. Eppure tutto accade nell’arco di una sola mattinata, di un tempo reale dilatato e spezzato costantemente da aneddoti e racconti che fluttuano tra le onde. Un affresco intimo e personale, mentre intorno, la città di Napoli, immobile nella sua caotica congestione funge da palcoscenico.

Massimo è il protagonista, proiezione del nostro La Capria, che comunque non si risparmia una voce onnisciente e quindi distaccata dal suo interprete alterego. L’arco temporale che abbraccia riguarda poco più di un decennio, annotando la data più distante al ’43, nel bel mezzo della guerra e dei suoi bombardamenti, e del fatidico incontro con Carla, oggetto di desiderio e ombra di rimpianto. È quindi un rapporto a tre; da un lato l’eroe un po’ perdente che sente su di sé lo scorrere del tempo, e dall’altro l’amore accarezzato e sfuggito. Il tutto dinnanzi agli occhi della loro città, alle prese con una frettolosa e caotica messa in scena del boom economico. Questi due elementi rappresentano per Massimo la stessa cosa, un amore viscerale e impossibile; non può avere Carla come vorrebbe, così come non può vivere e possedere la sua città. È inevitabile la partenza, quella di un amante affranto, e quindi di un figliol prodigo sempre più malinconico e disincantato, nei suoi ritorni che si susseguono, sempre più estranei. Il mare è come il liquido amniotico, dove Massimo ha trovato rifugio, e la città un ventre da abbandonare.

Il racconto si fa dunque anche saggio, sulla Napoli inondata di cemento armato, in completa disarmonia con la sua storia e la sua ricchezza, la città feroce di Achille Lauro, che La Capria aveva già raccontato con Francesco Rosi ne Le mani sulla città, che fa a cazzotti con Vico, con Benedetto Croce, con Filangieri. Di questa foresta vergine, che ti addormenta e che ti ferisce a morte, l’autore nel frattempo ne racconta la fauna, quella borghese dei circoli nautici, dei tavoli da gioco, degli aperitivi e delle vacanze a Capri. Una borghesia che comunque sapeva essere popolare, figlia di una guerra che aveva azzerato o abbreviato le distanze sociali. Privilegio durato il tempo di un tuffo.

La tecnica narrativa è sicuramente innovativa, e La Capria dimostra da subito di aver imparato la lezione dei grandi romanzieri americani della prima metà del ’900, risultando uno dei migliori esempi di ricerca narrativa del secolo scorso, punta massima della sua produzione. Premio Strega 1961.

 

(Raffaele La Capria, Ferito a morte, Bompiani, 1961)

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