La borsa di Etro

di / 4 maggio 2013

«Girare a destra».
La voce serena del navigatore ogni tanto rompe il silenzio. Per fortuna. Ambra fissa le prime gocce di pioggia sul parabrezza. In macchina è salita volentieri: l’aria è grigia e fredda.
«Però la cintura non la metto».
«La metti eccome. Se esce l’airbag ti ammazza».
«Tanto mica facciamo un incidente».
«Lo spero bene».
Si è lasciata legare senza altre proteste ed è ammutolita. Una ragazzina qualsiasi, una piccola sfigata figlia di sfigati. Punto e basta.
La borsa di Etro è sul sedile posteriore.

Quando è entrata nella toilette ˗ una sobria fila di porte e di candidi lavabi ˗ non ha fatto caso alla finestra: l’ha vista solo dopo. È andata a lavarsi le mani. Una, due, tre gocce di sapone profumato ed eccola lì, nello specchio, seduta sul davanzale. Una gamba dentro e una fuori, i capelli a coprire la faccia.
È lì che fuma. Adesso parte l’allarme antincendio.
E invece no, non fuma. Strappa meticolosamente un fazzolettino di carta, velo dopo velo. I pezzettini svolazzano fuori senza fretta nell’aria autunnale. Cadranno chissà dove otto piani più sotto.
Si è sciacquata le mani e le ha piacevolmente asciugate al getto di calore. Domani a quest’ora sarà già in aereo. Venti ore di viaggio, cambio a Dubai per Singapore.
La ragazzina nello specchio si muove. I fazzolettini sono quasi finiti.
«Cosa fai, piangi?»
«No. Adesso mi butto». La voce è piccola e infantile. Una specie di pigolio.
Nella toilette non è entrato nessuno.
Questa ci mancava proprio, la bambina che si vuole buttare dal megastore vista Duomo. Novantanove su cento appena sei fuori cambia idea. Quindi girati, prendi la borsa ed esci.
«Che hai detto? Non ho capito».
«Ho detto che adesso mi butto». Non è proprio una bambina. Dodici anni, forse tredici.
Sai cosa fai? Esci e chiami qualcuno. Muoviti.
Ha preso la borsa sul ripiano di marmo.
«La borsa di chi è?»
«Che razza di domanda. È mia».
Il pigolio si è fatto impaziente. «Di chi è, è di Prada?»
«No, è una borsa di Etro».
Ed ecco l’illuminazione improvvisa. Brillante e incongrua.
Non c’è bisogno che chiami qualcuno. Dalle quello che vuole. Forza, è facile.
«Vieni giù di lì e te la mostro». L’ha seguita così, a istinto.
La ragazzina ha buttato dalla finestra i fazzolettini ed è scesa dal davanzale con un piccolo salto. Tranquilla, nessuna esitazione. Alla faccia del suicidio annunciato.
Lo vedi? Non pensano a niente, non sanno niente. Basta una caramella.
Però la faccia è rigata di lacrime.
Ha preso la borsa e l’ha carezzata a lungo tirando su col naso.

«Siete arrivati a destinazione». Un palazzo di cinque piani in una lunga via alberata. Davanti all’ingresso il posteggio pieno di cartacce.
La voce del navigatore ha molte certezze.
Accompagnala a casa, chissà cosa ha per la testa. In fondo la valigia è già pronta.
Le ha lasciato in mano la borsa di Etro. Non c’entra un cavolo con lei ma non importa.
«Come ti chiami?»
«Ambra».
«Ho un’amica canadese che si chiama Amber. Bene, miss Amber, adesso andiamo a casa».
«C’è solo mia nonna. Se lo sa si spaventa».
«Una cosa per volta. Andiamo». Ambra si è lasciata guidare fino alla macchina senza obiezioni.
Così, come se non aspettasse altro.
Comunque in mezz’ora di viaggio non ha detto una parola.

Chissà cosa si aspetta adesso, mentre salgono le scale. Non trema e non è agitata. Semplicemente si vergogna delle lampade al neon e delle mura giallo sporco.
«L’ascensore è rotto e il comune non manda nessuno».
Quando sono sul pianerottolo Ambra china la testa. Il pigolio è quasi impercettibile.
«Se mia nonna lo sa non mi fa più uscire».
All’interno il volume del televisore è troppo alto: suonano il campanello due o tre volte.
Una donna robusta apre la porta. Alla vita ha un grembiule da cucina.
«Era ora. È tardi».
«Sono stata male per strada e lei mi ha accompagnato».
«Per forza, non mangi niente». Lo sguardo è grigio e incerto.
«Se vuole entrare un attimo».
«Un attimo solo grazie».
In un angolo dell’anticamera c’è una scarpiera aperta. «Cos’aveva la bambina?»
In effetti si è sentita male. Che altro vuoi dirle? Adesso mi butto?
«Stava per svenire, deve aver preso freddo». Ambra ha ancora addosso una felpa estiva. In macchina ha tirato su il cappuccio.
«Lo credo, è sempre in giro. Non so più cosa fare, anche per la scuola».
«Che vuole, è un’età balorda. Poi passa».
Squilla il telefono in un’altra stanza. «Mi scusi».
Già che sei qui è a lei che devi dire qualcosa. Su, cerca le parole.
Ambra si toglie il cappuccio. Tira su col naso.
«Magari domani andiamo da McDonald’s con la macchina. Magari».
Lo vedi? Non aspettava altro. Dovevi prendere la tua borsa e uscire subito da quel bagno.
«Domani vado a Singapore».
«È lontano?»
Fantastico, per una che non vuole figli. Il caso umano delle otto di sera. La piccola sfigata bisognosa d’affetto.
«Abbastanza. Dammi il cellulare che ti telefono».
Bene bene. Mi sa che qui sei tu la sfigata. Vai a raccontarlo in televisione. Quella bambina ha dato un senso alla mia vita.
«Subito».
Giusto il tempo di mettere il numero in rubrica.
«Tua madre dice che arriva tardi». La donna col grembiule è di nuovo nell’anticamera.
Vattene, muoviti. Ne hai abbastanza.
«Bene, miss Amber, adesso devi proprio restituirmi la borsa. Grazie. Buonasera, signora».

La luce d’Oriente inonda la stanza. L’ambiente è spazioso e la temperatura perfetta.
Fra mezz’ora arriva il taxi. Sbrigati a chiamare la reception per la colazione.
A quest’ora il condominio della piccola Ambra è immerso nel buio con le sue scale sporche e l’ascensore rotto. Le otto e quindici. In fondo Singapore è solo un megastore un po’ più grande di quello di piazza
Duomo, tutto qui.
Il cellulare è acceso come sempre.
Su, fallo, se no ci pensi tutto il giorno. E invece oggi devi chiudere il contratto.
Va bene. Tanto la reception non risponde.

CIAO AMBER SONO AL VENTICINQUESIMO PIANO. VISTA MAGNIFICA. DOMANI TI CHIAMO PER MCDONALD’S. M’INTERESSA LA STORIA DEL DAVANZALE.

Uno-due-tre- Complimenti. La prossima volta esci dal cesso e scappa a gambe levate, è meglio.
Uno-due-tre.
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