“Cicatrici” di Juan José Saer

di / 13 maggio 2013

Tra gli scrittori latinoamericani lasciati in ombra dalla generazione del boom, non possiamo non includere la figura dell’argentino Juan José Saer. Conosciuto in Italia con la pubblicazione del romanzo poliziesco L’indagine (Einaudi, 2006) e di Luogo (Nottetempo, 2007), torna in libreria con Cicatrici (La nuova frontiera, 2012), originariamente pubblicato nel 1969 e dalla critica considerato come il suo primo romanzo maturo.

Come gran parte della narrativa di Saer, Cicatrici è un libro frammentario, eterogeneo, composto da quattro storie che in un movimento a spirale sembrano avvicinarsi poco a poco a uno stesso fatto: l’omicidio di una donna con due colpi di fucile. In realtà, a una lettura più attenta, ci si rende presto conto che ciò che unisce i diversi filoni dando al romanzo un’apertura coerente è piuttosto l’atmosfera torbida e pesante che attraversa, come la pioviggine, le quattro narrazioni in prima persona.

Ángel è un giovane reporter alle prese con una madre dai costumi troppo lascivi, letteratura e bottiglie di whisky. Ordina prodotti a nome di Philip Marlowe e rincorre il doppio di se stesso per la strada. Sergio è un ex avvocato corroso dal vizio del gioco, al quale tenta di dare, inutilmente, un senso e una logica, in una ciclicità inevitabilmente fallace. Ernesto è un giudice deluso dal mondo e dagli uomini, che chiama «gorilla», ossessionato da un’omosessualità latente e dall’ennesima traduzione del Ritratto di Dorian Gray, a cui lavora notte e giorno. Luis Fiore, infine, è un operaio alcolizzato che, al culmine di una giornata densa di tensioni, finisce per ammazzare la moglie con due colpi di fucile.

Quattro uomini, quattro punti di vista, quattro storie attraversate dal dolore, dall’ossessione e dalla vergogna. Questa la vera spina dorsale del romanzo, che non si fonda su una vera e propria indagine dei fatti, non nasconde mistero né incognita: il crimine è latente nella trama, ma privato di tutte le sue connotazioni poliziesche. Si sa già che cosa è avvenuto, dall’inizio, e le approssimazioni successive ai fatti non sono che la rappresentazione di uno slancio della scrittura sempre in tensione tra l’ordine e il caos, espresso con l’utilizzo di una lingua cupa, a tratti sporca, e ossessivamente ripetitiva, nell’efficace intento di incarnare, in ogni virgola, le sensazioni dei protagonisti. È lo stesso autore a segnalarcelo, nelle parole di Tomatis: «C’è un solo genere letterario, ed è il romanzo. Ci sono voluti molti anni per scoprirlo. Ci sono tre cose reali in letteratura: la coscienza, il linguaggio e la forma. La letteratura dà forma, attraverso il linguaggio, a determinati momenti della coscienza. E questo è tutto. L’unica forma possibile è la narrazione, perché la sostanza della coscienza è il tempo». Non è un caso, infatti, che le quattro narrazioni siano scandite dai mesi che raccontano, ripetendosi, sovrapponendosi e mischiandosi nel tempo e nello spazio del romanzo.

Saer, minando le basi delle forme di narrazione tradizionali, costruisce quattro storie che sono come ferite, cicatrici, appunto, «frutto delle prime ferite della comprensione e dello stupore», in un romanzo complesso e affascinante in cui a farla da padrone, oltre alla pioggia e al grigiore costante, è un inarrestabile senso di fallimento, la chiara impossibilità dell’uomo di avere un’influenza costruttiva sullo scorrere degli eventi.


(Juan José Saer, Cicatrici, trad. di Gina Maneri, La nuova frontiera, 2012, pp. 304, euro 17,50)

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