Amici di fabbrica

di / 8 giugno 2013

Eravamo cresciuti nella stessa zona ma mai ci eravamo incrociati. Diceva di essere stata reclusa in casa fino alla maggiore età e forse anche di più. Io ho sempre pensato che fosse stata reclusa da un destino molto più faticoso del mio. Quando la vidi per la prima volta mi diede subito il “senso” della fiducia, quella carezza che si sdraia sulle vene e ti lascia, per pochi secondi, inebetito.
La fabbrica fu la nostra stretta di mano, il piacere di vedere uno sguardo “amico”su cui affogare il tetto che copriva i nostri lunghi sbuffi, le pause strette di minuti senza retromarcia. E intanto gli anni passavano. Da un reparto all’altro il rumore dei torni si faceva più ricco, più colorato.
I brividi dell’inverno si mescolavano al sudore delle stagioni calde. Poi, d’incanto, quel concerto cadenzato cessò, e iniziò una pausa chiamata cassa integrazione. La natura ebbe tutto il tempo per fare il suo corso.
Lei si fece confortare da un bacio sulla bocca per mettere al mondo “l’acuto” più importante della sua vita. E in questo l’aiutò la metà a cui teneva di più e un miracolo di cui solo a Dio si può rendere merito.
Tommaso fu ramo aggrappato a una quercia ancora molto giovane, i pianti nelle notti buie e senza luna, le mani tese dell’amore all’amore. I suoi respiri s’intrecciavano ai sorrisi della madre, passi svelti di una vita vissuta con impazienza. Tra un sospiro e un altro, all’alba di una nuova primavera, ritornò in fabbrica. Ritornò dopo anni di esilio e dopo che la cassa integrazione andò a scagliarsi contro la volontà di uno Stato pagliaccio. La solita pelle chiara, magra, i capelli lunghi, castani, ormai pezzo unico con la spina dorsale. Spostata di reparto, lontana anni luce ma vicina nei saluti, nei sorrisi, più alti dell’odore del ferro, più densi di un sole che cominciava, stancamente, a riscaldare.
Riprendemmo a confessarci senza regole, senza un orario stabilito, in disparte, lasciando la parte pari dell’officina ai nostri colleghi zuppi di olio e passioni insignificanti.
«Ho paura», mi disse un giorno a voce lenta, «paura che mio figlio possa campare della sua ombra. E magari ripercorrere le stesse mie strade. Strade tristi e già solcate».
Non le risposi subito, presi il tempo per la coda e guardai a lungo l’infinito, facendomi sbirciare le mani da una virgola di vento.
Mi ricordai di quando aveva visto le mie lacrime, lacrime di padre appena pronunciato, impaurito davanti al mondo pitturato di “nuovo”. Le aveva rette con forza, le aveva asciugate prima che diventassero acqua marcia da posare sulle guance di un viso scimunito. Mi aveva detto: «Il figlio è un taglio nel cuore, una ferita che non guarisce, una costola che vivrà di te ma non per te». Schiarì quella tristezza, sciolse quel nodo ancorato alla gola, accennando un sorriso. Un sorriso che ora non sapevo restituirle.
«Sarai una madre buona». Lo dissi con un filo di voce, dando a quell’aggettivo una forza inaspettata di lucida sacralità. Anche lei, quel giorno, aveva urgenza di qualcosa che spegnesse la sua tristezza.
Fu lo scatto a colpirmi, il taglio del suo viso intatto, come quando la vidi, per la prima volta, davanti ai cancelli della fabbrica.
Accolsi quel gesto con la gratitudine di un attore di teatro che ha terminato la sua recita. E, come al solito, non seppi risarcirla di nulla.

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio