“Versioni di me” di Dana Spiotta

di / 25 giugno 2013

«Da grandi, Nik e Denise si sarebbero detti di aver avuto un padre tremendo. Faceva le sue apparizioni sempre a caso, e un bel giorno se n’era andato per sempre. “Sarebbe stato un ottimo zio”, le aveva detto Nik l’ultima volta che ne avevano parlato. “Il perfetto zio porta-regali una volta l’anno, che può farti un resoconto su quanto sei cresciuto e poi giocare alla lotta per due minuti prima di versarsi uno scotch e andarsene”».

Il rapporto padre-figlio è uno dei topoi della cultura nordamericana. E da queste poche frasi tratte dalle prime pagine di Versioni di me di Dana Spiotta (minimum fax, 2013), si potrebbe pensare che anche questo romanzo si collochi in questo arcipelago narrativo, ponendosi come l’ennesima – anche se non sarebbe per questo degna di minore attenzione – storia americana sul rapporto tra i padri e i figli, tema caro a tanta letteratura d’oltreoceano – basti pensare a romanzi quali Pastorale americana di Roth e Le correzioni di Franzen –, ma anche alle narrazioni cinematografiche e televisive, come dimostrano la pellicola The Tree of Life di Terrence Malick e la serie televisiva Six Feet Under. Il romanzo della Spiotta, però, pur non abdicando del tutto questa vocazione al racconto dei rapporti intergenerazionali, fa un passo avanti e narra la storia di due fratelli, Nik e Denise, entrambi ormai alla soglia della mezza età, in una Los Angeles che trasuda vita e morte al tempo stesso.

Un tempo un rocker di successo, poi caduto in disgrazia, oggi Nik lavora come barista in un locale, vivendo alle spalle della sorella, divorata – fisicamente, ma soprattutto psicologicamente – dallo scorrere del tempo. Se Nik trova un’evasione e una consolazione alla propria frustrazione nel redigere quelle che lui chiama «Cronache» (il diario – fatto di lettere e recensioni fasulle – di una carriera musicale folgorante, ma soprattutto totalmente inventata), Denise riuscirà a rappacificarsi con la vita soltanto nel momento in cui si vedrà costretta a ripercorrere l’autobiografia romanzata del fratello, che all’indomani del suo cinquantesimo compleanno scompare gettando la sorella nella disperazione.

Come Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, anche Versioni di me racconta lo scorrere del tempo e le sue ricadute, questa volta però sulle vite di due fratelli molto, troppo diversi fra loro per non cedere alla tentazione di amarsi indiscriminatamente. Ed è nelle poche righe riportate in apertura, che si trova racchiusa l’essenza del romanzo, perché quel padre che «faceva le sue apparizioni […] e un bel giorno se n’era andato per sempre» non è altro che la passata giovinezza (e i sogni e le speranze che questa recava con sé) dei due protagonisti, quella stagione della vita che può trovare una poetica rappresentazione in una metafora che la veda come uno «zio porta-regali […] che può farti un resoconto su quanto sei cresciuto», nel bene e nel male, «e poi giocare alla lotta per due minuti prima di versarsi uno scotch e andarsene» chissà dove, da solo, e questa volta per sempre.

(Dana Spiotta, Versioni di me, trad. di Francesco Pacifico, minimum fax, 2013, pp. 249, euro 16)

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