“Mandami tanta vita” di Paolo Di Paolo

di / 1 luglio 2013

Paolo Di Paolo ha felicemente superato, in questo suo nuovo, fortunato Mandami tanta vita (Feltrinelli, 2013) un certo memorialismo adolescenziale, diaristico, del precedente romanzo, per darci la densità di vicende, e di dramma, che il distacco temporale di una vicenda ambientata nei decenni iniziali del secolo scorso consente, ma anche, ricalcando uno dei suoi due protagonisti, Piero, su una precisa, e perfettamente identificabile (valga, per tutti, il particolare del ritratto di Casorati) figura storica, ha potuto conferire ai personaggi la profondità culturale (e magari, anche, perché no, umana), che ai ragazzotti del liceo romano, coi loro pauperistici cliché espressivi, non era probabilmente concessa.

Ma se a questa precisa temperie storica il personaggio di Piero in qualche maniera “doveva” uniformarsi, in quel tanto di eroismo intellettuale, l’altro protagonista, Moraldo, personaggio di assoluta invenzione, ha potuto meglio colorarsi delle tinte più attuali, più nostre – sveviane, verrebbe da dire… – del velleitarismo, dello scacco; a lui, così, è concessa la “debolezza” della sessualità (in Piero o non c’è, o è codificata, matrimoniale: l’intensa poesia del suo chinarsi sul seno della moglie che allatta il bambino…), del desiderio che si sveglia, del particolare “basso” del gonfiore nei pantaloni. A lui è riservata l’esperienza della donna che – quasi programmaticamente – prima si concede, perfino con troppa facilità e poi, inspiegabilmente («mistero senza fine bello», no? Tanto per restare a Torino, e a quegli anni…), si sottrae; di questa donna, Carlotta, neanche per un momento riusciamo, proprio come Moraldo, a entrare nell’animo, a vederla magari con lo stesso stupore di chi si vede fotografato da lei; eppure, dietro quello sguardo c’è, deve esserci, una capacità di penetrazione che sconcerta: come, altrimenti, avrebbe saputo ciò che scrive dietro il frammento di foto (era «il dono di una delle sue fotografie» che Moraldo aveva invano chiesto, al primo incontro), che quella parte di lei gli fa paura? Ed è originale (ma, a un tempo, profondamente poetico), quel gesto, di profanazione insieme e di sopravvivenza, degli occhi strappati dalla foto, su cui la vicenda del libro si chiude.

Netta, dunque, l’opposizione, l’alterità che connota le due figure femminili: di Ada, la moglie di Piero, sappiamo invece tutti i pensieri, dolci, femminilmente solleciti del suo uomo, fino a quel rinunciare, per lui – quasi da eroina pucciniana – alla sua musica, a quel cercare sul dizionario i termini troppo “alti” con cui lui le si rivolge.

Ben diversamente, Moraldo e il suo deuteragonista sono in realtà molto meno opposti e speculari che a prima vista; si presentano come due diverse facce di una stessa sconfitta (con in più, a rivelare un sapiente uso di «motivi liberi», il punto di contatto della bocciatura di Moraldo; come sarà, poi, con ancora più parlante giustezza, per il libro montaliano, che Piero pubblica); meglio, sono entrambi “al di qua” della vita: Moraldo, avendone, dichiarandone, la consapevolezza, Piero nel suo esilio, in quel suo approdo al nulla, al naufragio, in cui finisce per “ritrovarsi” con Moraldo ancora più di quanto questi non faccia con la sua inafferrabile Carlotta per i pochi istanti in cui alzano lo sguardo alle mongolfiere; oltre che, ovviamente, del virtuosistico, splendido episodio dell’incontro sulla panchina del parco.

Momento, questo, in cui risiede uno dei tratti di maggiore eccellenza del libro, dal punto di vista strettamente letterario: di vittoriosa affermazione della specificità della letteratura, rispetto a tutte le altre forme di mimetismo così affannosamente rincorse da quanti pongono l’apice delle proprie aspirazioni di scrittore nel fare da spunto alla sceneggiatura di un film con un paio di ragazzotti bellocci, e possibilmente svestiti. Alludo al divario, che solo la pagina letteraria può realizzare, fra il pensato e il detto: fra ciò che Moraldo vorrebbe dire al riconosciuto Piero e ciò che invece gli dice; come già era avvenuto quasi ogni volta nei dialoghi, specie quelli iniziali, con Carlotta, fra le voci del suo desiderio e i tanto più impacciati mots de la tribu che la sua bocca pronuncia.

Eppure (occorre dirlo!), dove il libro trova forse il senso più alto del suo valore è proprio nella parola: la finezza del lessico, che non disdegna, all’occasione, icasticità da parlato, ma respira di continuo la sensibilità di quello poetico, specie nelle felici metafore (i libri ingialliti come mani di vecchi, gli alberi in preda al vento come in una pena dantesca, Alfieri come un’esplosione di gabbiani, ma si pesca a piene mani quasi ovunque…); e poi, il ductus svelto e pur sempre sovranamente elegante delle frasi, la misura di una paratassi mai minimalista, anzi di un sorvegliatissimo atticismo. Una prova, insomma, di raggiunta, freschissima maturità.


(Paolo Di Paolo, Mandami tanta vita, Feltrinelli, 2013, pp. 160, euro 13)

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