Tamburi e biciclette

di / 11 luglio 2013

Olivier, un burkinabè enorme e dalla risata rumorosa è il direttore della filiale di Dano dellaBanque International pour le Commerce, l’Industrie et l’Agriculture du Burkina. Un nome impegnativo, ma in realtà la filiale consiste in una piccola stanza dove Olivier è anche impiegato e cassiere. Insomma, c’è solo lui. Ci entro per cambiare un po’ di franchi CFA. Olivier però, vista la rarità nei paraggi didablo, i bianchi in lingua Lobi, preso dall’entusiasmo si trasforma subito in un mio fan. Mi fotografa con il cellulare. Poi decide di chiudere la banca – «Tanto siamo già aperti da più di tre ore» – e mi accompagna a visitare il villaggio. E il mercato. Poi mi porta a conoscere la famiglia. Quindi a casa di sua sorella. E alla fine a bere una birra. Così diventiamo amici e gli parlo della mia passione per l’antropologia e del mio interesse per le cerimonie del popolo Lobi. Soprattutto per le cerimonie funebri. Può sembrare un po’ macabro, ma si sa che gli antropologi hanno un’attrazione particolare per sepolture, sacrifici e simili. La mattina dopo Olivier è di fronte alla mia pensione su una scassatissima Peugeot 405 verde. Ci spostiamo pochi chilometri a sud, verso il Ghana. Un po’ di capanne, l’immancabile mercato e, soprattutto, la cerimonia che sto cercando. Un funerale Lobi si svolge in momenti diversi, che possono durare pochi giorni ma che arrivano anche ad alcuni mesi. Lo scopo è accompagnare il defunto dalla condizione di fantasma a quella di spirito e poi di antenato. Noi partecipiamo al primo momento, la sepoltura vera e propria. Anche Olivier si contiene assumendo un atteggiamento adatto alla circostanza. Cioè continua a parlare senza sosta, ma a bassa voce. Tutto si svolge all’aperto e, come sempre in Africa, è coinvolto l’intero villaggio. Il defunto, avvolto in una stuoia, è al centro. Di fronte i musicisti suonano vari strumenti tradizionali: tamburi di legno, tamburi di pelle e due enormi xilofoni. La musica cambia a seconda che il defunto sia maschio oppure femmina. Le donne emettono lunghi ululati modulati come lamento funebre, mentre i fossatori attendono per l’esumazione. Seguo il mio voluminoso accompagnatore ripetendone i gesti. Passando accanto a un mucchio di miglio ne prendiamo una manciata e ci fermiamo per qualche secondo davanti alla salma, ai musicisti e ai fossatori. A ogni tappa lasciamo in offerta del miglio e qualche moneta. Arriviamo poi a un riparo di paglia, dove i parenti del morto offrono piccole calebasse dichopolo, la birra di miglio. Assaggio curioso la mia, dal sapore amarognolo e frizzante. Olivier ne beve tre. All’improvviso si sente un gran vociare e i presenti cominciano a correre verso la strada. «Che succede?» chiedo. «Le Tour, le Tour!» risponde Olivier, facendo segno di affrettarsi. Arrivo alla strada. La gente è schierata ai due lati, rivolta a nord verso Ouagadougou. Poco dopo sfrecciano tre moto con le bandiere rosse di segnalazione. Poi le auto ammiraglie, quindi un paio di fuggitivi. Dopodiché arriva la massa dei ciclisti. Gli atleti sono stravolti dallo sforzo. Mani attanagliate al manubrio, collo tirato, viso paonazzo. Le maglie scure di polvere e sudore. Ci sono diversi bianchi, ma gli africani sono in maggioranza. I primi su biciclette supermoderne. Telai in acciaio ultraleggero, sellini in carbonio, caschi aerodinamici. Molti degli altri, invece, con vecchi caschetti in pelle e su bici ormai quasi d’epoca. Il pubblico è caldo, urla, applaude, si agita. Accanto a me, particolarmente esagitate, ci sono alcune delle donne prima impegnate nei lamenti funebri. Le riconosco dagli ululati, gli stessi del funerale anche se non più per lutto ma per incitare gli atleti. Un paio dei suonatori hanno portato i tamburi e li battono furiosamente. In un attimo la strada prima deserta si è trasformata in una bolgia. La folla forma un muro nero, uniforme, in cui il mio volto spicca come un fanale bianco. E infatti, quando mi raggiungono, i corridori sgranano gli occhi guardandomi quasi increduli, chiedendosi che diavolo ci fa lì in mezzo questo bianco sperduto nella campagna africana. Passa un ciclista e mi fissa stupito. Un altro, biondissimo, mi supera, si volta e quasi finisce fuori strada. Dalle auto delle squadre spuntano braccia pallide che fanno grandi cenni di saluto. La situazione diventa quasi comica. Estraggo la macchina fotografica, ma devo rinunciare. La linea degli spettatori, infatti, per entrare nella foto fa un passo in avanti come un plotone schierato. Così però finisce in mezzo alla strada, incurante dei ciclisti che di fronte a questa barriera umana che avanza cominciano a sbandare paurosamente. Mi raggiunge Olivier, quasi più trafelato dei corridori «Non conosci il Tour du Faso? È I-M-P-O-S-S-I-B-I-L-E!». A sentire lui è la gara a tappe più importante del mondo, alla pari del Tour de France. Questa è la ventiduesima edizione. Dieci tappe, 1.200 chilometri e arrivo nella capitale Ouagadougou. Una tirata unica di dieci giorni. Oggi si corre la seconda tappa, da Boromo a Diébougou. In Europa la definiremmo una tappa per velocisti. Poco più di tre ore per 133 chilometri di strada piatta e tre sprint. In realtà è un percorso massacrante. C’è un caldo che schiaccia a terra e un’umidità che stringe i polmoni. Gran parte della gara si corre su piste dove non piove da anni, con la polvere che intasa naso e bocca. Un ambiente spietato che fa giustizia della disparità di mezzi. Questa edizione la vincerà un belga, ma nell’albo d’oro non mancano burkinabè, marocchini ed egiziani. Certo, non è il Tour de France. Però si respira un agonismo che sembrava scomparso, fatto di ginocchia sbucciate, di facce stravolte, di fughe da incoscienti. Un ciclismo per professionisti di medio livello, che magari campionissimi non lo saranno mai. Come Rabaki Jérémie Ouédraogo, vincitore nel 2005, che in Burkina Faso è una specie di eroe nazionale. Ma nel frattempo la corsa è passata e riprende il funerale.

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