“Inferno” di Dan Brown

di / 16 settembre 2013

Risulta sempre difficile recensire romanzi come Inferno di Dan Brown (Mondadori, 2013) per almeno tre motivi: problema di genere (narrativa come intrattenimento e non come letteratura), di analisi (per natura la fiction pura racchiude tutto il significato nella superficie, nella maggior parte dei casi quindi nella trama), di snobismo (personale e della critica, soprattutto italiana, in generale).

Sul fenomeno Il codice da Vinci si è detto molto, troppo e di più, eppure lo abbiamo letto più o meno tutti con l’avarizia fisica con cui vediamo certa cinematografia oltre-oceanica. Abbiamo partecipato pure al gioco (giogo?) della cercata (e ottenuta) catarsi culturale collettiva in cui su diversi piani sapienziali siamo stati ora i fautori del «lo sai che?», ora i mistificatori del «non è vero niente» o del «non ha inventato nulla», infine i detrattori del «è carta straccia».

Come se un romanzo, che per gli americani è pura fiction, finzione, e quindi intrattenimento dovesse portare in sé i germi della canoscenza;dovesse condurci, per mano, a scoprire i segreti dell’arte e persino della religione in una società, quella occidentale, che ha messo in standby il conflitto tra fede e ragione e che non può ricercare la veritas nel gusto, tutto contemporaneo, del sensazionalismo pirotecnico.

I più o i meno scafati (a seconda dei punti di vista) hanno letto anche Angeli e demoni, romanzo successivo per edizione italiana ma precedente in quella americana, e libro meno discusso, meno volutamente eclatante ma forse congegnato (nella narrazione almeno) meglio del più famoso Il codice Da Vinci.

Ora ci troviamo di fronte un’opera che ci dimostra quanto l’Italia (e quella nostrameravigliosa stagione che da Federico II ci conduce al Rinascimento) piaccia a Dan Brown e indirettamenteal professore di Harvard Robert Langdon (che per noi che non abbiamo resistito alla tentazione di bissare la lettura con la riproduzione cinematografica, ha il volto e le sembianze di Tom Hanks), il quale si ritrova di nuovo protagonista di un racconto che ha sullo sfondo la nostra storia e la nostra tradizione culturale.

Dopo Leonardo è scomodato Dante, il sommo poeta, e la Commedia, l’opera che più di altre racchiude il nostro essere italiani.

Quello che ne esce fuori è un thriller più debole degli altri, forse il peggiore (tenendo comunque saldo il principio sacro dell’intrattenimento) che attinge a piene mani dagli altri senza neanche tentare di dissimularlo. Brown gioca ancora con lo strumento che conosce meglio, quello della simbologia e dei chiaroscuri della storia: la solita di aneddotica vera, presunta e di totale invenzione.

Il protagonista è in Italia per fare alcune ricerche sul libro dei libri e si ritrova immischiato in una vicenda dai risvolti misteriosi e oscuri. C’è un enigma da risolvere per arrivare alla verità e i soliti avversari in piena chiave complottistica. Sullo sfondo, la bellezza italica (quella delle armonie classiche e non del disordine mediterraneo), paesaggi toscani, continui misteri e rimandi (storici o pseudotali), la modernità tecnologica (in pieno gusto di confine presente-futuro) e un raccordo capace di unire e mescolare tutto in un gran calderone.

Anche il protagonista è più debole: non è capace di parlare tra le righe, e dimostra, nelle sue vicissitudini, una struttura che appare meno attenta e ragionata.

Diciamoci la verità, in determinati momenti in Dan Brown abbiamo apprezzato la scorrevolezza e il suo andare avanti quasi fregandosene di inesattezze volontarie o involontarie, il suo sapersi far leggere “sulla spiaggia”: in Inferno un po’ ci manca quell’andamento scanzonato e ritroviamo (ritrovo?) una certa confusione che rallenta la lettura senza però offrirci un’alternativa valida.

 

(Dan Brown, Inferno, trad. di Nicoletta Lamberti, Annamaria Raffo e Roberta Scarabelli, Mondadori, 2013, pp. 522, euro 25)

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