“Glaxo” di Hernán Ronsino

di / 8 ottobre 2013

C’è un luogo specifico all’interno di quella massa multiforme che è la letteratura, in cui l’aggettivo “breve”, spesso sottovalutato, bistrattato, diventa sinonimo di qualità. È sempre vero per i racconti, la cui brevità suppone un certo grado di complessità, in cui è più difficile dosare il flusso di omissioni rispetto a quello regolare delle informazioni. Talvolta, però, se ne appropria anche la forma romanzo, come nel caso di Glaxo di Hernán Ronsino (Meridiano Zero, 2013), secondo romanzo dell’autore e primo a essere tradotto in Italia.

Un romanzo breve, dunque, brevissimo: un mondo costruito e impacchettato in neanche cento pagine, un paio d’ore di lettura. Il centro del mondo creato da Ronsino è Glaxo, «un paese sperduto nella pampa argentina», microcosmo inventato ma plausibile in tutti i suoi aspetti di cittadina di provincia, in fondo non più di una strada: il tradizionale corso, testimone del succedersi dei giorni e delle stagioni. Lo scorrere di un tempo con cui l’autore sceglie di giocare, frammentando la narrazione in quattro parti, affidate a quattro narratori differenti: schegge di una storia che si svela in ordine non cronologico.

Un barbiere, un macellaio, un impiegato delle ferrovie, un sottufficiale: uomini comuni tra i quali si insinua una spia di violenza, un omicidio. La scena si apre nel 1973 con la voce cruda e insistente del Flaco Vardemann, il barbiere, da poco tornato al paese. La narrazione quindi si interrompe, dopo averci fornito dettagli che solo in seguito sapremo fondamentali, per riprendere nel 1984, quando un colloquio tra Bicho Souza, il macellaio, e l’amico Lucio Montes rievoca fantasmi del passato, di fatto anticipando il destino dei protagonisti. Nelle parole di Miguelito Barrios, ossessionato dalla visione della morte, apprendiamo i fatti risalenti al 1966; ed è solo con il racconto del sottoufficiale Ramón Folcada, violento marito della seducente Miranda la Mora, che il lettore può ricostruire la storia in tutti i suoi dettagli.

Glaxo è un mistero che resta insoluto fino all’ultima pagina, come nella miglior tradizione del genere, rendendo la lettura scorrevole, a tratti frenetica. A legare ulteriormente il tutto, l’incessante andirivieni dei treni. La stazione sembra essere il dettaglio che rende Glaxo reale: è il treno che collega il paese a Buenos Aires (al resto del mondo); su un treno inizia la caduta di Miguelito; il rumore di un treno in transito coprirà l’omicidio: «E allora inizio a sognare treni. Treni che deragliano. Dondolano, prima di rovesciarsi. Spaccano le rotaie. Sprizzano scintille. E poi arriva quel rumore, che precede l’arresto, così stridente. Da far male ai molari. Da far impressione».

Come per la maggior parte della letteratura argentina contemporanea, non mancano i riferimenti – seppur sapientemente velati – alla storia del paese: l’esergo con cui si apre il romanzo, una citazione da Operazione Massacro di Rodolfo Walsh, è in questo senso quasi una dichiarazione di intenti. L’ombra della Glaxo, fabbrica non meglio identificata attorno alle quale gira la vita del paesino, che da questa prende addirittura il nome, e la figura del sottufficiale Folcada tratteggiano l’infiltrarsi prepotente dello Stato nella vita quotidiana.

Il principale merito del romanzo, oltre a una scrittura (e a una traduzione) notevole, definita e incisiva, è senz’altro la maestria che Ronsino mostra nel costruire una realtà parallela, una galleria di personaggi dolorosi per quanto drammaticamente comuni, veri. Da qui, eccoci tornare alla brevità come valore aggiunto: in sole novantasei pagine, una densità rara. 

(Hernán Ronsino, Glaxo, trad. di Mariana E. Califano, Meridiano Zero, 2013, pp. 96, euro 9)

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