[RomaFF8] Giorno 5: “Out of the Furnace” e “I corpi estranei”

di / 13 novembre 2013

Martedì è stato il giorno del secondo attesissimo film statunitense in Concorso ufficiale al Festival Internazionale del Film di Roma, Out of the Furnace di Scott Cooper, con un cast di grandi nomi: Christian Bale, Casey Affleck, William Defoe, Zoe Saldana, Forest Whitaker, Sam Shepard e Woody Harrelson.

Siamo nella provincia siderurgica degli Stati Uniti. Russel e Rodney sono fratelli, diversi ma profondamente uniti. Russel è uomo serio, onesto. Lavora nell’acciaieria della città come tradizione di famiglia, ama una donna, Lena, e deve spesso aiutare il fratello. Perché Rodney tende a finire nei guai. È un soldato di leva in Iraq e quando è in licenza in città si indebita sempre con l’allibratore locale, John Petty. La loro vita non è semplice, il loro anziano padre sta morendo di cancro, i soldi non bastano, ma se la cavano, finché tutto non rotola via all’improvviso: Russel finisce in prigione per omicidio colposo dopo un incedente stradale, la sua donna lo lascia per mettersi con un poliziotto, il padre muore, Russel termina il servizio e torna in città senza un mestiere. Quando Russel esce dal carcere tutto il suo mondo è da ricostruire, a partire da Rodney, spinto da una rabbia autodistruttiva che lo porta a rifiutare una vita normale e a finire in un pericoloso giro di combattimenti clandestini.

Dopo il successo di Crazy Heart, Scott Cooper torna con un film che guarda alle storie dei reduci del Vietnam della New Hollywood, soprattutto a Il cacciatore (citato direttamente), per aggiornarle con la nuova ondata di sindrome del Golfo e speranza illuse negli Usa di oggi (siamo nel 2008, poco prima dell’elezione di Obama). È un film sporco, Out of the Furnace, splendidamente fotografato da Masanobu Takayanagi, che guida una messa in scena di elevata fattura, pieno di esseri inquietanti e spietati, figli di quelle montagne che già il recente Gelido inverno ha insegnato essere posti in cui vigono leggi alternative a quelle della civiltà urbana.

Con un Casey Affleck sorprendentemente maturo e inquieto come Rodney, Out of the Furnace ha la sua forza principale in un cast che conferma tutto il suo valore. Accanto a un Christian Bale sempre convincente, Woody Harrelson nei panni del bieco hillibilly DeGroat si conferma eccellente caratterista.

A convincere meno è lo spiritualismo di fondo che attraversa la storia, con Russel elevato a Cristo laico, con tanto di tappe di passione (il carcere, il lutto, l’abbandono), che si trova a farsi carico di tutti i mali e a inseguire una giustizia più alta di quella della legge per redimere le miserie e i peccati del (suo) mondo.

 

 

Con I corpi estranei, intanto, arriva il momento anche per il primo film italiano di cimentarsi nel Concorso ufficiale.

Antonio ha un figlio di pochi mesi, Pietro, con un cancro al cervello. Lo deve portare a Milano per farlo curare, mentre sua moglie rimane a casa con gli altri due bambini. Mentre all’ospedale è solo ad aspettare, i giorni passano. Antonio si confronta con gli altri parenti in attesa, in particolare con un ragazzo tunisino, Jaber.

I corpi estranei del titolo sono quelli di Antonio e Pietro, separati da un dolore che il piccolo non può comunicare se non con il pianto, sono quelli di Antonio e Jaber, vicini nel dolore ma distanti culturalmente. Antonio è una persona diffidente e fondamentalmente razzista. Guarda con dispetto gli arabi che si muovono per l’ospedale, finisce per spiarli e seguirli, più per noia che per sospetto. È proprio la ripetitività della noia di chi attende il tema di I corpi estranei, il limbo inesorabile e ciclico dei giorni passati ad aspettare che qualcosa si risolva. Antonio si aggira per l’ospedale, passa le ore che gli sono concesse con Pietro, mangia in mensa, fuma, prega, bestemmia, finisce anche a scaricare cassette ai mercati generali, più per vincere l’insonnia che per necessità economica.

Mirko Locatelli, al secondo film dopo Il primo giorno d’inverno e una serie di documentari, incolla la telecamera a Filippo Timi e non la stacca mai, finendo in pratica per girare in soggettiva. Timi regge tutto il film con una naturalezza estrema, rimanendo spesso solo in scena a parlare (al telefono o con il figlio) e a muoversi tra affetto, preoccupazione e rabbia con maturità e consapevolezza. È quello che si muove intorno, incluso il rapporto con Jaber, a essere poco sviluppato. La scelta di Locatelli per una rappresentazione realistica della lunghezza del tempo sospeso coincide con una lentezza espositiva a tratti estenuante che penalizza l’ottima interpretazione di Timi.

 

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