“Il soccombente” di Thomas Bernhard

di / 30 novembre 2013

«Chiamarlo il soccombente è stata una geniale invenzione di Glenn Gould, pensai, Glenn ha capito Wertheimer fin dal primo istante, Glenn ha capito a fondo fin dalla prima volta tutte le persone che ha conosciuto».

Pubblicato in Germania nel 1983 e due anni più tardi in Italia da Adelphi, Il soccombente è il primo dei tre romanzi dedicati alle arti sceniche e visive di Thomas Bernhard; tre sono anche i protagonisti della storia, l’io narrante, di cui ignoriamo il nome ma che si può facilmente associare alla figura di Bernhard, il virtuoso del pianoforte Wertheimer e il famoso pianista canadese Glenn Gould.

Spina dorsale del racconto è l’imperituro conflitto tra il talento acquisito e il genio indiscusso, in questo caso impersonato da Gould, che porterà immancabilmente al suicidio di Wertheimer.

Nel limbo dell’ignavia si colloca il narratore, compagno di studi di entrambi al Mozarteum di Salisburgo che in Gould riconosce il genio e l’impossibilità di eguagliarne le doti, rassegnandosi così all’idea di abbandonare la carriera musicale.

Lo stesso non succede a Wertheimer, che sin dal primo ascolto delle “Variazioni Goldberg” di Bach per mano dell’amico canadese, viene colpito da un’angoscia ossessiva che non si riduce semplicemente all’invidia, ma che, come un parassita, avvelena tutto ciò che lo circonda, gli amici, l’amata/odiata sorella, la servitù, arrivando persino a detestare la tenuta in cui abita, ignaro del declino che lo attende.

Martellante sin dalle prime pagine, il racconto non segue una trama, ma ci rivela subito e bruscamente il tragico esito del pianista, come se la fine – e dunque la morte – fosse paradossalmente il punto di partenza per capire l’uomo dietro lo strumento, un uomo che neppure ambisce alla gloria del palcoscenico,  destinato soltanto a essere succube della sua stessa esistenza.

«Non era riuscito a rassegnarsi al fatto di essere stato partorito in un mondo che in sostanza e fin dall’inizio lo aveva sempre disgustato in tutto e per tutto». Così Bernhard cristallizza nello spazio e nel tempo questo ambiguo personaggio, la sua staticità è oltremodo accentuata dall’imperante e dinamica figura di Glenn Gould fino a renderla esasperante agli occhi del lettore che ne desidera la fine, quasi dimenticando che questa fine effettivamente c’è già stata.

È interessante constatare che è Glenn Gould il vincente indiscusso, vincente anche nella prematura morte, un uomo che non brilla poiché è, ma è su Wertheimer che il narratore sposta l’attenzione, colpevolizzando e compatendo l’esteta perduto, il perfezionista incompleto, fino all’inevitabile depersonalizzazione espressa chiaramente nel titolo del libro.

Titolo più che risoluto se ci si lascia sedurre dall’etimologia della parola tedesca Untergeher che in sé ingloba sia il fallimento psicologico e morale di Wertheimer, sia l’atto di soccombere definitivamente di fronte alla vita (letteralmente «che va sottoterra»), significato in parte perduto nella traduzione italiana.

Efficace, inoltre, è la capacità di Bernhard di creare uno schema narrativo preciso: il linguaggio volutamente soffocante, che a primo acchito dà l’impressione di un groviglio di associazioni mentali sconnesse, è in realtà organizzato in modo tale da riproporre sistematicamente poche considerazioni chiave come se fossero sempre diverse, se assumessero nuovi significati.

Non è un libro che mira a creare una coscienza morale nel lettore, tutt’al più cerca di svelare l’uomo da vicolo cieco dietro il gesto plateale di una morte annunciata, ci sobbarca di conseguenze più che di risposte, delle presunte spiegazioni del “dopo” che inevitabilmente ronzano nella mente e asfissiano chi resta.

(Thomas Bernhard, Il soccombente, trad. di Renata Colorni, Adelphi, 1985, pp. 186, euro 10)

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