“Still Life” di Uberto Pasolini

di / 13 dicembre 2013

Vincitore del Premio Orizzonti per la regia a Venezia arriva Still Life, di Uberto Pasolini, al suo secondo film dopo Machan e dopo una carriera di grandi successi come produttore (su tutti, Full Monty) con la casa di produzione Redwave.

John May è un uomo solo, metodico, organizzato. Vive per il suo lavoro al comune di Londra che lo pone in contatto quotidiano con la vita delle persone morte in solitudine. Il suo compito è quello di rintracciare i parenti più prossimi di chi è morto senza nessuno accanto. Per John non è un lavoro freddo, burocratico, fatto di telefonate e frasi di circostanza. Ci mette passione e affetto, indaga nelle vite dei defunti per trovare la canzone da far suonare al funerale o le parole adatte, cariche di ricordi e dettagli, per il discorso che il prete deve pronunciare durante la funzione. I suoi metodi iperscrupolosi sono un costo eccessivo per il comune che decide di fare a meno di lui. Prima di lasciar crollare il suo mondo, May si dedica con ancor più slancio all’ultimo caso da chiudere, quello di Billy Stoke, un alcolizzato trovato morto in casa che ha un passato e una figlia da qualche parte.

Con Still life in inglese si indica la rappresentazione pittorica di oggetti inanimati, privi di vita, quel tipo di raffigurazione artistica in Italia chiamato natura morta. La vita di John May è una natura morta, una vita ferma, immobile, che si dedica solo alla costruzione della memoria della vita degli altri, alla monumentalizzazione degli uomini qualunque di cui si trova ad essere custode dell’ultimo passaggio. Tutto è inquadrato e statico per May: le sua abitudini, i suoi pasti sempre uguali, lo stesso abito ogni giorno, lo stesso percorso per andare a lavoro, lo stare seduto sempre allo stesso posto, da solo, durante le funzioni funebri, il metodo rigoroso con cui organizza i suoi casi. Solo il lavoro cambia, nel conoscere, se così si può dire, i defunti di ogni tipo, imparandone la vita alla ricerca di un indizio di ciò che possa rendere unico il funerale di quelli che per lui non sono solo degli sconosciuti o delle semplici pratiche da sbrigare, ma qualcosa di più di esseri umani comuni, i suoi amici, gli unici, la sua famiglia. È nell’amicizia con il ricordo di Billy Stoke che May intraprende un percorso di cambiamento e crescita, conoscendo Kelly, la figlia, e capendo che fuori da quell’ufficio una vita nuova è possibile.

Uberto Pasolini scrive, dirige e produce una poesia sulla solitudine e la sua enorme generosità. È un’elegia sulla dignità della vita, qualunque vita, e sull’importanza della lentezza nella memoria, nel conservare i momenti per la storia.

Pasolini accompagna John May con la telecamera con statica ed elegante calma, come dipingendo ogni volta nature morte, rifacendosi esplicitamente ai momenti più contemplativi del cinema di Ozu e lasciando le immagini a parlare assieme ai personaggi, dando valore simbolico a oggi di vita quotidiana, da un sotto bicchiere in sughero a una mela sbucciata. È una regia potente, fatta di camere fisse e prospettive, di sequenze ripetute e semplice, assoluto, lirismo.

Eddie Marsan, caratterista noto per aver lavorato, tra gli altri, con Scorsese, Spielberg e Malick, indossa gli abiti di John May per il suo primo ruolo da protagonista facendo di un qualunque funzionario comunale un eroe capace di resistere all’effetto corrosivo del tempo, in grado di parlare con i morti e di dare loro la possibilità di lasciare un ultimo messaggio. Attorno a lui si muovono personaggi costruiti con pochi, sapienti, tocchi, tessere, frammenti del mosaico del ricordo che Pasolini costruisce intorno a John May, la somma conclusiva di quella commovente e gentile tenerezza che anima Still Life e che lo rende un film di pura e unica emozione.

(Still Life, di Uberto Pasolini, 2013, drammatico, 87’)

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