“Il volontario di Auschwitz” di Witold Pilecki

di / 31 gennaio 2014

La storia ha dell’incredibile. Sconosciuta ai più – in Italia ne sapevano qualcosa solo i lettori di un libro dello storico Marco Patricelli – la vicenda del Volontario di Auschwitz, il militare polacco Witold Pilecki che si fece arrestare dai tedeschi per vedere cosa succedesse davvero nel campo, raccogliere informazioni e possibilmente organizzare da lì la resistenza all’occupazione nazista, viene ora proposta da Piemme. L’editore milanese traduce dall’edizione americana i documenti prodotti dal tenente di cavalleria per tenere informati i suoi superiori sui fatti del campo.

Pilecki è ignaro della tragedia che vi incombe, del gradiente di violenza che sta per farne il campo di sterminio per antonomasia – quando lui vi entra con un falso nome, Auschwitz rinchiude delinquenti comuni, prigionieri polacchi, comunisti, non solamente ebrei. Ma una volta entrato, all’ufficiale bastano poche ore per capire quanto avesse frainteso e sottovalutato la situazione del campo. Gli rompono i denti a manganellate. Gelo, umiliazioni, fame, frustate, assassinii estemporanei: lo scenario è quello. Pilecki nota subito ciò che definisce un po’ semplicisticamente «psicologia di massa», ossia l’immediata sottomissione dei prigionieri a una volontà di potenza che intende proprio ridurli a “cosa”, a numero; e gli fa male – uomo vocato all’eroismo al quale parlare di «gregge di pecore» non viene difficile – soprattutto constatarne l’effetto sui polacchi. I rapporti che invia ai suoi superiori in clandestinità  parlano chiaro; mettere insieme una compagine di resistenti è un’impresa. Spera che gli alleati bombardino Auschwitz ma non lo ascolta nessuno. Lui, cattolico ispirato agli ideali di «Dio, patria, onore» (in verità un po’ troppo vicini ai nemici che intende combattere) assiste all’inasprirsi dello scempio antisemita, alla ferocia dei Kapo, ma i lettori dei suoi rapporti li giudicano esagerati. Non credono – non vogliono credere – che i nazisti spingano i prigionieri a tentare la fuga per poi sparargli addosso proprio perché «volevano fuggire». Ma a dire il vero – lo dimostrò presto, nel ‘55, quel libro capitale che è Il nazismo e lo sterminio degli ebrei di Lev Poliakov – già nel ‘38 a Buchenwald, dagli altoparlanti del campo si potevano sentire frasi come questa: «Ogni ebreo che desideri impiccarsi è pregato di avere la cortesia di introdursi nella bocca un pezzo di carta con il proprio nome».

Il destino molto laterale che ha segnato il documento non è dovuto solo all’eccezionalità dell’azione di Pilecki ma al fatto che l’ostinato soldato che nel ‘43 riesce a fuggire e tornare a Varsavia, ripeterà il gesto – sempre nell’improbabile orizzonte di una strategia resistenziale – nel campo avverso, della vincente invasione sovietica. La guerra è finita, ma con il gulag la fortuna non lo assiste; Pilecki verrà giustiziato nel 1948 (l’accusa: «crimini contro lo Stato e spionaggio agli ordini dell’imperialismo straniero»). Il destino postumo di un riconoscimento dovrà pertanto aspettare il purgatorio della guerra fredda. Una storia individuale speciale e un altro memoir da Auschwitz quando si pensava fossero esauriti.

 

(Witold Pilecki, Il volontario di Auschwitz, trad. di Annalisa Carena, Piemme, 2014, pp. 480, euro 18,50)

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