“Augustus” di John E. Williams

di / 18 marzo 2014

Avevo appena finito di leggere, con vergognoso ritardo, Stoner, libro che ho amato come pochi altri, quando mi sono imbattuto in Augustus, l’ultimo romanzo di John Edward Williams, in cui si ripercorre la vita del primo imperatore romano con un piglio squisitamente letterario.

Uscito in autunno per Castelvecchi, preannunciato da un lato da pretestuose critiche di alcuni studiosi quali Luciano Canfora che lo hanno stroncato per alcune “deformazioni” storiche e, dall’altro, dall’attesa spasmodica di chi, come me, si aspettava tanto da questa pubblicazione, l’opera di Williams, in un modo o nell’altro, non ha lasciato nient’affatto indifferenti fosse anche perché questa pubblicazione ha conciso con la mostra dedicata ad Augusto presso le Scuderie del Quirinale, a Roma, organizzata, a duemila anni dalla morte (19 agosto 14 d.C.), per presentare le tappe fondamentali della folgorante storia personale del figlio adottivo e pronipote di Giulio Cesare.

La vita di Augusto, personaggio carismatico e affascinante da tanti punti vista, è ripercorsa sin dall’infanzia e da quella chiave di volta che fu l’uccisione del padre adottivo, l’uomo che aveva messo a soqquadro l’ordinamento ormai classico della Repubblica.

Tutto passa nelle sue mani ma lui non è altro che un ragazzo gracile, malaticcio, che porta con sé, in eredità, soltanto un nome e un po’ di soldi.

E sono proprio quel nome e quei soldi, lasciatigli da Giulio Cesare, in sintonia con una serie di scelte intuitive ma rischiosissime per un ragazzo della sua età ad avviare una carriera di successi irripetibili.

L’opera iniziata dal padre è conclusa dal figlio che ne farà tesoro per portare, a Roma, l’impero più grande e più affascinante della storia del’uomo occidentale.

Augusto riesce a porre fine alle lotte fratricide, cancella in poco tempo sanguinosi conflitti che consumato, dall’interno, la repubblica.

Più di quarant’anni di principato, in un impero che si estendeva in tutto il Mediterraneo, fino alla Turchia, e in tutta l’Europa centrale, sono abilmente raccontati dall’autore che attua un vero e proprio gioco di incastri tra documenti storici, invenzioni letterarie, punti di vista differenti, lettere e fatti accaduti raccontati con un taglio psicologico sicuramente occidentale e contemporanea.

Infatti, a mio avviso, la forza del libro non va cercata nella perfezione storica – che a volte lascia spazio a, scusate l’ossimoro, fantasie comunque verosimili – ma nella costruzione d’insieme, nella piattaforma a ragnatela creata magistralmente da Williams.

Concetti fondamentali come «pax», «pietas», «concordia» si adattano a una storia che, prima di tutto, è fatta da uomini. Augusto è il primo di un gruppo di amici – una formidabile brigata di pensatori, filosofi, poeti, artisti, uomini politici che vanno da Virgilio a Orazio passando per Mecenate – in cui tutti sono primi nella loro arte così come nella fedeltà e nella stima reciproca.

Augustus è un padre, di una figlia e di uno stato. Legatissimo alla prima, sceglie di sacrificarla per il secondo e ne soffre come solo un genitore e una persona che ama possono soffrire.

Augustus ha paura della morte e della solitudine, perché la morte e la solitudine lo attenderanno e probabilmente avrebbe voluto prima morire che rimanere solo, senza i suoi amici che periscono, tutti, prima di lui.

Certo Williams quando la narrazione attinge dall’epistolografia latina (che siano lettere o pagine di diario poco importa) sicuramente non rispetta il canone delle lettere nel mondo classico ma è come criticare la Yourcenar per il profilo psicologico modernissimo che caratterizza il suo Adriano.

A unire tra loro i testi di questo corpus creato ad hoc dall’autore, c’è una lingua meravigliosa, precisa, attenta, che non cade mai nel sensazionalismo. La stessa “perfezione” estetica che ci ha fatto innamorare di Stoner, un professore la cui vita sarebbe la paralisi del fascino se non ci fosse stata dietro la mano alchemica di Williams.

Alla fine del libro ci sentiamo amanti a cui è stato tolto troppo presto il proprio amato. O meglio i propri amati: sì perché più di Augusto ci innamoriamo dell’insolenza di Giulia, della saggezza di Agrippa, della sensibilità di Mecenate, dell’eroismo di Salvidieno Rufo; dell’intelligenza di Livia, del respiro di Roma.

Ci innamoriamo di un tempo forse tirannico, è vero, ma dal fascino indiscutibile. Un tempo di grandi uomini che, forse, solo nel Rinascimento italiano si è spostato nell’ombra di altri tempi.


(John Edward Williams, Augustus, trad. di B. Oddera e A. Lattanzi, Castelvecchi, 2013, pp. 384, euro 17,50)

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