“Ragazze di campagna” di Edna O’Brien

di / 24 marzo 2014

«Il sole al tramonto scatenò un incendio nella parte occidentale del cielo. Da quel fuoco diramavano sentieri colorati, non rossi come il sole, ma di un rosa caldo e intenso. Il cielo al di sopra era azzurro, purissimo, e ancora più in alto, sopra le nostre teste, le nuvole veleggiavano serene, come enormi piume d’oca. Il paradiso era lassù, da qualche parte».

Non è un caso che l’Irlanda timorata di Dio degli anni Sessanta abbia avuto un sussulto quando è stato pubblicato per la prima volta Ragazze di campagna (Elliot, 2013), non tanto per i temi affrontati, che hanno pur sempre avuto un impatto destabilizzante all’epoca, quanto per l’oltraggio al pudore mal digerito dai suoi abitanti.

L’idea che un popolo ha di sé è sempre migliore rispetto a ciò che riflette, trova giustificazioni al mezzo per garantirsi il fine, fa sfoggio di apparenti privazioni per celare poco nobili tornaconti; Edna O’Brien conosce bene le due facce della sua terra, l’Irlanda santa e genuflessa e quella frivola e bevitrice e le fa convivere nel suo romanzo, attraverso i suoi personaggi specchio di rigore e omertà.

Lo scandalo dunque era inevitabile, come era inevitabile la condanna per la temerarietà dell’opera, disdegnata e platealmente data alle fiamme sul sagrato delle chiese.

La casa editrice Elliot, dopo mezzo secolo, riporta nelle librerie questo capolavoro per farci conoscere la storia di Caithleen, semplice ragazza di campagna, della conflittuale amicizia con la più spigliata Baba e dell’esacerbante realtà gretta e zeppa di regole morali e religiose di quegli anni.

Nel libro della O’Brien c’è la chiarezza asfissiante del contesto che si impone sui personaggi, come se fosse il luogo stesso a inchiodarli nella staticità di provincia. La campagna irlandese viene subita come una realtà asettica in contrapposizione con l’irruenza del cielo che si «incendia» nei tramonti ed esplode in improvvisi temporali.

Per quanto appaia come un’ingenua sognatrice con la testa altrove, Caithleen fa vivere in sé questo contrasto: esige l’esplosione, il cambiamento e sa che per farlo deve allontanarsi dall’immobilità della sua terra che in breve tempo le ha portato via tutto, la madre, la casa, la giovinezza.

Questi vuoti devono essere riempiti, anche a rischio di sovraccaricarli di illusioni.

Caithleen fa i conti tutti i giorni con un padre violento che dissipa il denaro guadagnato in alcool mandando in rovina la tenuta di famiglia, con gli zoticoni del paese volgari e invadenti, con le glaciali suore del collegio dove è stata spedita e con l’invidiosa Baba che non perde occasione per metterla in soggezione, facendola sentire una nullità.

L’amore sembra l’unica alienazione possibile per lei ma veste i panni di un uomo sposato, inafferrabile, vissuto nel timore e nascosto a tutti, soprattutto a Baba incapace di coglierne l’intensità e di farsi complice.

A rendere straordinaria la narrazione della O’Brien sono proprio le zone d’ombra, l’autrice non si limita a segnare sul muro la crescita delle due giovani ragazze, ma ne descrive le angosce, le tentazioni, i litigi, i cedimenti, tipici di chi è costretto a restare con un altro essere umano troppo a lungo per mancanza di alternative.

«Piansi per un bel pezzo, sdraiata sul letto, finché non cominciai a sentire freddo, molto freddo. Per qualche motivo viene sempre freddo dopo aver pianto a lungo».
(Edna O’Brien, Ragazze di campagna, trad. di Cosetta Cavallante, Elliot, 2013, pp. 256, euro 17,50)

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