“Bella mia”
di Donatella Di Pietrantonio

di / 2 ottobre 2014

«Accadde in questi anni dopo il terremoto, mi sveglio di soprassalto con la certezza di non aver preso ieri sera una pillola indispensabile alla sopravvivenza. Prima di capire che non assumo nessun tipo di farmaco passano gli attimi necessari a chiedermi se sono ancora in tempo a mandar giù la medicina o se devo morire. Saranno gli incubi dei traumatizzati, forse anche altri sognano così. Dovrei chiedere un po’ in giro qui alle C.A.S.E., ma non parlo molto con i vicini. Non parlo molto in generale».

Non è facile riuscire a esprimere il dolore di una perdita, di una assenza, soprattutto se questo si accompagna al dolore simbiotico di migliaia di persone cadute sotto il peso dello stesso ingestibile male.

È il dolore di chi resta in quella che un tempo fu L’Aquila, decadente come le sue fondamenta dopo il sisma del 6 aprile 2009, raccontato dalla voce autentica di Donatella Di Pietrantonio nel libro Bella mia (Elliot Edizioni).

Bella mia perché è così che viene definita L’Aquila in un canto popolare, un canto che dopo quel fatale giorno ha assunto un significato completamente diverso per chi l’ascolta, un canto strozzato e innaturale che non ha più eco.

Ma anche nelle macerie la vita seppur dimezzata torna a occupare i vuoti, fuori dalla Zona Rossa e nelle periferie dove derisori acronimi hanno sostituito la parola casa.

Come «deportati» i sopravvissuti continuano le loro esistenze in questi appositi e sterili complessi antisismici, senza voler conoscere i propri vicini sapendoli provvisori come la certezza di un futuro. Ed è qui che vive anche la voce narrante che non ha nome, come se non dovesse più portarne uno, come se l’uno senza il suo doppio migliore cessasse di essere.

Separarsi per sempre da una gemella è come smarrire un po’ se stessi, non riuscire più ad affrontare gli specchi. Una incompiutezza che si è concretizzata nella dissolvenza di una terra, ma che consuma l’animo della protagonista già da tempo; non è possibile essere felici vivendo all’ombra di una versione più riuscita di sé, lo è ancora di meno quando all’improvviso quella versione non è più lì ad attutire le cadute.

«Non reggo uno stato di benessere duraturo, da sempre cerco un male o una colpa che mi consumi. Ne ho bisogno, per sapermi al mondo. Non sono capace di felicità, ma trascorro a volte momenti di insopportabile grazia».

Cosa resta alla fine? Un forzato accumulo di giorni senza testo, un nipote adolescente lasciato in eredità e mantenuto controvoglia, una madre spezzata che necessita di un capro espiatorio per accettare l’inconcepibile e il dolore, un dolore esausto che definisce malgrado tutto il confine da cui ripartire.

«Ovunque vedo catastrofi, in un futuro non so quanto prossimo. Così mi difendo, scommetto sempre sul peggio, perché non mi sorprenda ancora».

(Donatella Di Pietrantonio, Bella mia, Elliot Edizioni, 2014, pp. 192, euro 17,50)

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