[RFF9] La noia e la ribellione

di / 20 ottobre 2014

Si può arrivare in vari modi a non farcela più. Si può essere giovani, schiacciati dalla noia e sedotti dall’aspirazione di un ordine nuovo, di una realtà in cui identificarsi, o si può essere anziani, a un passo dalla pensione, e soprattutto stufi di subire prevaricazioni, ingiustizie, violenze. L’unica cosa che si può fare è reagire per raddrizzare l’ordine che non va bene, oppure rendersi conto, quando ormai è troppo tardi, che il mondo che si voleva cambiare, che la noia che schiacciava e privava di senso i giorni, era da preferire rispetto al nuovo, orribile, che si impone.

È quello che capisce Shun, il protagonista di As the Gods Will, ultimo film del giapponese Takashi Miike, presenza quasi fissa del Festival di Roma che riceverà quest’anno il Maverick Director Award per la sua capacità di essere «un continente a sé stante del cinema contemporaneo». In un liceo di Tokyo i ragazzi di una classe sono costretti a giocare a una versione estrema di “1-2-3 stella” da un bambola Daruma (una statuetta votiva tradizionale giapponese) che ha misteriosamente preso vita. A chi verrà sorpreso a muoversi verrà fatta saltare la testa. Da dove arrivi la bambola non si sa, o meglio, tutti hanno vista uscire dalla testa del professore in una normale mattinata di scuola, ma perché sia sbucata e soprattutto perché sia animata e violenta, nessuno lo sa. Non è il solo gioco che gli studenti sono costretti a subire. In palestra, un enorme maneki-neko (altra scultura tradizionale nipponica rappresentante un gatto) mangia ragazzi travestiti da topi; quattro bambole del tipo kokeshi uccidono chi non le riconosce dalla voce, mentre un orso polare che non sopporta le bugie fa delle semplici domande pretendendo sempre la verità in risposta. A sopravvivere, ad arrivare alla prova finale, sono in cinque, tra cui Shun, la sua amica d’infanzia Ichika e il misterioso e violento Amaya. Shun si è sempre lamentato della noia della sua vita sempre uguale, pregando gli dei di avere un mondo nuovo con più stimoli. Amaya si sente un predestinato, un prescelto per il nuovo mondo che non sa neanche dove cercare. Mentre provano a sopravvivere, tutto intorno, a Tokyo e nel resto del mondo, dei giganteschi cubi arrivati da non si sa dove galleggiano nel cielo e tutti hanno modo di vedere quello che succede nelle scuole, venerando i sopravviventi come “figli di dio”.

Dietro As the Gods Will c’è un manga di grande successo in Giappone (con tanto di seguito) da cui il visionario Miike ha attinto per costruire una convenzionale (per lui) storia di violenza e ironia. Il sangue è ovunque, sin dai primi, esplosivi (è il caso di dirlo), minuti con l’1-2-3 stella del Daruma. È talmente tanto, il sangue, che persino Miike non se la sente di motrarlo tutto e lo fa diventare perle rosse su cui scivolare cercando di mettersi in salvo. Il senso ulteriore di questa escalation splatter è la noia che attanaglia i giovani giapponesi (tutti belli, provenienti da scuole private) che apre le porte a tutto, anche ad accettare un gioco al massacro come stimolo. È simile, come impostazione, al romanzo Battle Royale di Koushun Takami portato al cinema da Kenta Fukasaku. Lì, i giovani erano arrivati a un tale livello di insubordinazione e mollezza morale da dover essere presi e deportati su un’isola dove solo il più forte sarebbe riuscito a sopravvivere. In As the Gods Will viene meno la logica del tutti contro tutti che era già stata di ispirazione per The Hunger Games per lasciare spazio a un andamento a livelli da videogioco. Bisogna risolvere l’enigma per andare avanti, pena la morte, premio la sopravvivenza. Proprio questo procedere così, per piani successivi, rivela il limita maggiore del film di Miike nella ripetitività. Il regista non vuole prendersi sul serio e non pretende di essere preso sul serio, ma il meccanismo dell’ironia funziona solo a tratti. I vari giochi e indovinelli appaiono come semplici pretesti per mostrare violenza e sangue, niente di più. Relegando il senso ulteriore dell’abbrutimento morale dei giovani alla periferia del messaggio cinematografico rimane solo una confezione registica impeccabile, poi il vuoto.

All’opposto dei protagonisti di Miike, Gianni, alter ego del regista Gianni De Gregorio, di Buoni a nulla non vorrebbe altro che la noia. Gli mancano pochi mesi alla pensione, non vuole sconvolgimenti alla sua vita non perfetta ma basata su solide abitudini di lentezza. Invece, la nuova normativa sul lavoro lo fa entrare nel mondo degli esodati e gli regala una sorpresa non gradita. Per arrivare alla sua pensione di impiegato comunale non bastano più quei pochi mesi, ci vogliono tre anni. Non solo: il suo ufficio non sarà più al centro di Roma, a due passi da casa, ma nella periferia fuori dal raccordo, nella nuova sede ultramoderna. Gianni, abituato a non fare molto in ufficio, è costretto a sopportare le prepotenze dei nuovi capi, le richieste dell’ex moglie e della figlia che vorrebbero che lasciasse il suo appartamento al centro per andare più vicino al nuovo lavoro. È il nuovo fidanzato dell’ex moglie a dargli il suggerimento che gli cambia la vita: basta subire, è arrivato il momento di incazzarsi. Gianni capisce che finché continuerà ad abbassare la testa non otterrà nulla e allora decide di affrontare la vita in un altro modo. Impara a dire no, a rispondere alle prepotenze e sta subito meglio, trova un amore, un amico e discepolo nel collega timido e impacciato Marco che prova a iniziare sulla strada della rabbia catartica, e una nuova dimensione.

Dopo Il pranzo di ferragosto e Gianni e le donne, lo sceneggiatore, regista e attore Gianni De Gregorio torna con una nuova commedia che pone, ancora una volta, al centro il suo alter ego quasi fallito per osservarlo nel momento del riscatto e della risalita. È il riscatto di impiegati abituati ad abbassare la testa verso i superiori, la società, la famiglia. È una specie di rivolta dei Fantozzi di tutta Italia che non anelano tanto alla parità, quando a diventare come il geometra Calboni.

C’è il consueto garbo, la solita leggerezza e la carrellata di personaggi semplici e onesti e lo stesso fondo di scorrettezza politica nell’affermare il principio che è giusto rispondere con mezzi scorretti alle scorrettezze.

La novità è nella scelta della tematica sociale che apre all’attualità e mostra uno stato che è per primo ingiusto e mal organizzato. Per il resto, Buoni a nulla funziona soprattutto fino al cambio di registro che porta alla lite tra Gianni e Marco, che aggiunge una sfumatura drammatica superflua. Con il suo stile ormai caratteristico, De Gregorio continua comunque a fare il suo cinema tutto particolare. Per una volta ha con sé un cast di volti noti, da Marco Mazzocca che interpreta il collega Marco a Valentina Lodovini, che è la procace Cinzia, passando per Anna Bonaiuto, Gianfelice Imparato e Ugo Gregoretti.

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