“My Old Lady” di Israel Horovitz

di / 18 novembre 2014

Si può essere degli esordienti a settantacinque anni. È successo a Israel Horovitz, che in carriera ha vinto premi su premi come drammaturgo, regista teatrale e sceneggiatore. Nel corso della sua carriera vicino e lontano da Broadway ha fatto calcare il palcoscenico a gente come Al Pacino e Diane Keaton. Nel 2002 aveva già provato a mettersi dietro la macchina da presa con il documentario 3 Weeks After Paradise, di cui era stato anche protagonista raccontando le conseguenze dell’undici settembre sulla sua famiglia. Ora torna con My Old Lady, con cui porta sul grande schermo una sua pièce del 2002.

Mathias è un quasi sessantenne spiantato che lascia New York per Parigi al seguito di un’eredità. Suo padre, con cui aveva interrotto i rapporti da anni, è morto e gli ha lasciato un sontuoso appartamento nella capitale francese. In verità, Mathias non ha alcuna intenzione di trasferirsi in Francia. Vuole solo liquidarsi della casa e tornare negli Stati Uniti con l’incasso. Quello che non sa, però, è che l’appartamento è vincolato da un contratto viager che il padre aveva stretto con la proprietaria – una raffinata signora di novantadue anni di nome Mathilde – quasi cinquant’anni prima. In sostanza, non potrà vendere niente finché la signora Mathilde sarà ancora in vita. Anzi: dovrà corrisponderle una rendita mensile di più di duemila euro, e lasciarla vivere in casa, insieme alla figlia sessantenne iper-protettiva. Niente soldi, quindi, ma debiti. Mathias è deciso a trovare comunque il modo di liberarsi della casa e delle donne, ma la convivenza coatta si rivelerà un’occasione per capire tante cose rimaste in dubbio nella sua vita.

Un contratto viager è una possibilità del diritto francese (prevista anche nel codice civile italiano) che consente la compravendita di immobili a un prezzo avvantaggiato rispetto al reale valore del bene in cambio di una rendita vitalizia riconosciuta al venditore, che mantiene il diritto a vivere nella casa venduta. È simile alla nuda proprietà, solo che comporta anche un’esborso dilazionato nel tempo, oltre all’usufrutto dell’immobile. È quindi su una tipologia di contratto che Horovitz basa il suo esordio al cinema.

Il pretesto della condivisione obbligata dalla legge di una casa è stato già sfruttato altre volte (nel 2003 nello statunitense Duplex, di Danny De Vito, mentre nel 1997 venne realizzato per la televisione italiana e francese Nuda proprietà vendesi, con Lino Banfi e Alessandro Gassmann). Horovitz però accantona presto l’elemento della coabitazione per concentrarsi su quello che è il vero tema di My Old Lady, che ha vedere con il tempo e il rapporto che si ha con esso, con l’eco dell’infanzia sulla vita adulta e sulle conseguenze delle scelte dei padri e delle madri sulla vita dei figli.

Mathilde conosceva molto bene il padre di Mathias, quello stesso padre di cui Mathias aveva sempre patito la mancanza, che lo ha reso insicuro e fragile, incapace di costruirsi una vita, con tre matrimoni falliti, uno per ogni romanzo che gli è stato respinto nei suoi tentativi di definirsi come scrittore. Nei ricordi della donna, Mathias non può riconoscere l’uomo che si è trovato costretto a odiare per sopravvivere. Il padre aveva una vita sospesa a Parigi, una potenziale alternativa che la famiglia newyorkese non ha mai fatto sbocciare, e lasciando la casa al figlio ha fatto un tentativo post-mortem di farla finalmente partire.

Quella casa di cui Mathias vuole liberarsi diventa il legame più autentico, nel suo valore simbolico, con un passato che gli è sempre stato mostrato solo in parte, nascosto dietro a bugie e verità negate.

Kevin Kline, Maggie Smith e Kristin Scott Thomas sono tre attori straordinari. Soprattutto Lline riesce a essere brillante e drammatico insieme, repellente e fragile in quella Parigi in cui quasi vent’anni fa era stato mattatore assoluto in French Kiss, con Meg Ryan. Sono loro tre, con le loro dinamiche relazionali, a reggere un film che risente molto dell’impianto teatrale originale nei dialoghi e nella struttura narrativa, con una netta prevalenza degli interni, soprattutto quelli domestici. È in questa dimensione, quella dialogica, che Horovitz ha modo di mostrare tutta la maestria maturata a teatro. È quando si confronta con il mezzo cinematografico puro che fatica a trovare un equilibrio. C’è una netta cesura tra la prima parte di My Old Lady, venata di commedia, e la seconda che si immerge nel dramma, senza una sfumatura graduale che accompagni. Alle prese con un mezzo nuovo, Horovitz fatica ad adattarsi non riuscendo ad appropriarsene.

C’è un pezzo del Don Giovanni di Mozart che Mathias/Kline ascolta passeggiando lungo la Senna da una cantante che si esercita, e che nel finale finisce per cantare anche lui: «Andiam, andiamo mio bene / a ristorar le pene / D’un innocente amor». C’è tutto il senso di My Old Lady.

(My Old Lady, di Israel Horovitz, 2014, commedia, 106’)

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