“Oltre il fiume”
di J.R. Moehringer

di / 18 novembre 2014

Francois Mauriac affermava che «uno scrittore è essenzialmente un uomo che non si rassegna alla solitudine». Può darsi. È probabile che la fantasia serva principalmente a farcire le cavità più feroci. A imbandire pareti sempre troppo bianche. A inventarsi compagnie di ogni peso e dialetto. Ma è bello anche immaginarlo un po’ diverso. Berretto accanito, stivali al petrolio e stagione della caccia. Spugnato nel suo pantano. Efferato e morboso. Perché un narratore in fondo è anche un vampiro di storie. Ne annusa il sangue a distanza, s’invaghisce del collo indifeso e si abbevera fino a saziarsi. Un tempo asciutto, ristretto come un sorso.

Finché la sete non torna a pulsare. J.R. Moehringer evidentemente ha la gola secca. Oppure in cerca di amici. In effetti è soltanto una traduzione del bisogno. Quello che è certo è che gli basta captare un sussulto, un sibilo anemico, una piccola scatola di fatti per non sentirsi più solo. O appunto, per reclamare il suo quarto di plasma. Per chi non lo conoscesse ancora, basta ritrovarsi fra le mani Open, formalmente firmato da Andre Agassi e dai rovesci delle sue vicende. Dove, neanche troppo imbucato, c’è lui come gran burattinaio. Risultato avvincente, molto più di un doppio. Troppo per non procedere, con il suo libro migliore, Il bar delle grandi speranze e poi con Pieno giorno.

Per ultimo in Italia, sbarca Oltre il fiume (Piemme, 2014). Sgorgato più di dieci anni fa e non come un mero processo creativo, ma da un’inchiesta giornalistica. All’epoca Moehringer lavorava come corrispondente da Atlanta per il Los Angeles Times e per due anni ha infilato pancia e occhi in una delle comunità più oscure e dimenticate d’America, Gee’s Band, villaggio di neri leccato quasi per intero dal fiume Alabama. Una penisola semplice, una bolla di tempi immobili, dove il corso d’acqua è più del suo getto. Fa e smatassa, stritola e accarezza. Accudisce e castiga. Accorpa a divide. Gee’s Band resta un rettangolo di «terra color caramello», lontano dai bianchi clamori di cui diffidare. Mary Lee lo sa bene. Sa che il suo era un posto di schiavi e sa che il loro sudore è servito a realizzare il miracolo. O la rivoluzione. O la svolta necessaria, scegliete voi. Riscattare tutte le schiene dimesse, le vite incurvate. Reclamare quell’angolo e farsi padroni. E battezzare la vittoria con i propri nomi. La sua è gente orgogliosa e combattiva, gente con la pelle notturna e la pazienza sempre in tasca.

È lei il filo narrante di tutto quel popolo, lei che aspetta un traghetto, il solo mezzo capace di trapassare il fiume, di spingersi oltre. Verso altro, verso fuori, verso il distretto di Occidente da cui quello stesso fiume lo ha sempre protetto, da madre preoccupata che i figli si accorgano del mondo e lo trovino attraente. Un traghetto per evolversi, per velocizzarsi, ma anche per mescolarsi al resto, adulterarsi. Per sentirsi minacciati da un’opportunità. In questo dilemma la presenza di Mary Lee è una voce portante. Stanca e inossidabile. Pacata e ferma, percossa ma non piegata. Una quercia con addosso figli (morti e vivi),nipoti e parenti malati. Anche lei lo è, ma non per questo decide di fermarsi. Anche lei è come il suo fiume. Procede malgrado i detriti e poi scava altre strade anche grazie a loro. Ha tanto da dire Mary Lee. Sessant’anni di spine. Le sue gravidanze, la sua minuscola compatta esistenza, la luce nel fiato di Martin Luther King, un uomo in cui credere per sentirsi uguali. E liberi.

Grandina di aneddoti questo romanzo-verità. Un’enclave nascosta ed il suo polso di sforzi., ed è tutto ospitato nel tenue ripostiglio di appena ottanta pagine. Stampate a caratteri abbondanti. Un’inchiesta in cui il giornalista ha lasciato il posto allo scrittore. Alla sua fame di eventi, alla sua comitiva di storie. Impugnando una lingua breve e profonda. Immagini limpide e coraggiose. Nient’altro da aggiungere. Non servirebbe.

(J.R. Moehringer, Oltre il fiume, trad. di Giovanni Zucca, Piemme, 2014, pp. 96, euro 10)

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