“St. Vincent” di Theodore Melfi

di / 19 dicembre 2014

Può capitare di essere considerati santi senza far niente per apparire anche solo essere umani decenti. E possono esistere film che trovano tutta la loro santità cinematografica in un personaggio e in un attore che fa passare in secondo piano la mediocrità generale. È il caso di St. Vincent e del suo santo personale, Bill Murray.

Vincent MacKenna è un misantropo tendente all’alcolismo e sull’orlo di un baratro finanziario. La sua vita non prevede molto di più stimolante del trascinarsi dal divano al bar, con tappa in cucina per un bicchiere, e gli incontri settimanali con Daka, una prostituta russa e incinta a corto di clienti. Le sue entrate sono affidate a un rigido sistema di scommesse sbagliate ai cavalli che lo mettono in difficoltà di vario tipo. Una mattina Vincent viene svegliato dal suo coma etilico abituale dal tonfo di un ramo schiantato sulla sua macchina, che lui dice essere d’epoca, ma assomiglia più a un rottame. È stata la ditta di trasporti che sta ultimando il trasloco di Maggie e di suo figlio Oliver, i suoi nuovi vicini. Per una serie di circostanze Vincent inizia a prendersi cura di Oliver mentre Maggie lavora. Ovviamente chiede dei soldi in cambio, ma presto il rapporto assume un valore nuovo, di arricchimento reciproco.

Di film basati su relitti umani che trovano un riscatto attraverso un incontro è pieno il mondo. Il cinema statunitense ci sguazza nell’idea, o nel sogno, del cambiamento, del riscatto delle morali offese dalla vita. St. Vincent non fa eccezione. Il praticamente esordiente Theodore Melfi – regista, sceneggiatore e produttore, molti corti e un film nel 1999, Winding Roads passato praticamente inosservato – si inserisce nel filone puntando tutto sul Vincent a cui viene appioppata la santità.

Diciamo che il settantacinque per cento di questo film lo fa il cast. Di questo settantacinque, almeno la stessa percentuale spetta al solo Bill Murray, straordinario Vincent in sandali e calzini, sigaretta, parolacce e tute sdrucite. Indossa il suo dispetto per l’umanità con tutta la classe del grande attore che è, mostrando tutto quel mondo che si anima all’interno del suo personaggio senza mai rivelare niente. Perché Vincent non è solo un uomo che beve troppo e spende a caso i soldi. Sotto lo strato di accidiosa misantropia frigge un nucleo di dolore e sacrificio. Sopporta la fatica di una moglie malata, incapace di riconoscerlo come marito, che va a trovare ogni settimana nella lussuosa clinica in cui l’ha sistemata fingendosi un medico senza mai dire niente. È uno che continua a farle il bucato personalmente, Vincent, nonostante paghi qualcuno per farlo. È uno che mangia sardine di discount e compra le migliori scatolette per il suo gatto, e che paga con la sua assicurazione le visite mediche di Daka. È per questo che il piccolo Oliver, che è interpretato da un ragazzino che potrebbe avere talento, Jaeden Lieberher, instancabilmente alla ricerca di una figura maschile forte, lo vede come il suo santo, il santo umano di cui tutti hanno bisogno, il modello concreto di fallimenti ed errori in cui è possibile veder brillare una grazia non cercata. È Vincent a insegnargli le cose che la scuola non insegna, ad alzare la voce quando è giusto, per esempio, o a difendersi. Come è ovvio, l’arricchimento è reciproco, per cui da Oliver, Vincent impara soprattutto a sopportare gli altri, di nuovo, e a trovare, alla fine di tutto, un riparo dalla tempesta.

Intorno a loro si muovono l’attrice comica Melissa McCarthy, che mostra una precisa consapevolezza drammatica, nei panni della madre sempre sommersa di lavoro e costretta a lottare con un ex marito che vorrebbe tutto, e Naomi Watts che dà accento e volgarità alla “lavoratrice della notte” Daka.

Tolto il grande contributo di Bill Murray e degli altri attori, di St. Vincent non rimane molto altro se non una commedia di buoni sentimenti come se ne sono viste già tante e se ne continueranno a vedere. Senza un’idea particolarmente originale nello spunto di partenza, Melfi riesce ad arrivare verso l’inevitabile lieto fine senza particolari sussulti e allo stesso tempo evitando eccessive cadute di stile e banalità.

(St. Vincent, di Theodore Melfi, 2014, commedia, 109’)

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LA CRITICA

Può bastare la prova di un grande attore per salvare un film. In St. Vincent Theodore Melfi si affida completamente al carisma sornione di Bill Murray, perfettamente a suo agio nei panni lisi di un apparente relitto umano che ha molto di nascosto. C’è poco altro, però.

VOTO

6,5/10

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