“La sinagoga degli iconoclasti”
di J. Rodolfo Wilcock

Torna in libreria l'opera più nota dello scrittore argentino naturalizzato italiano

di / 27 gennaio 2015

Pubblicato per la prima volta nel 1972, Adelphi ripropone oggi La sinagoga degli iconoclasti (Adelphi, 2014) che, con tutta probabilità, è l’opera più conosciuta di J. Rodolfo Wilcock. Amico di Borges, Ocampo, Bioy Casares e Flaiano, Wilcock nasce nel 1919 a Buenos Aires e muove alla volta di Roma nel 1957 disgustato dal peronismo e deluso dal proprio paese. Arrivato in Italia egli adotta, nella sua scrittura, con abilità magistrale, la lingua del paese dove vive pur avendo già pubblicato vari e notevoli libri in spagnolo. È ricordato inoltre per le molte, memorabili traduzioni dall’inglese e dal tedesco.

In La sinagoga degli iconoclasti lo scrittore ci presenta una galleria di trentasette personaggi bizzarri che fanno improbabili ricerche, si prodigano nelle invenzioni più strambe o propongono teorie strampalate. Il tutto raccontato con la serietà di un saggio o di un trattato scientifico: un’enciclopedia nella quale troviamo filosofi, scienziati, saggisti e utopisti; scritta con una tale scrupolosità e diligenza che il lettore fatica inizialmente a comprendere se si tratti di personaggi reali oppure scaturiti dall’immaginazione dell’autore.

Nel corso dell’opera si incontrano infatti uomini come il capitano John Cleves Symmes che «sosteneva che la terra è fatta di cinque sfere concentriche, tutte e cinque forate ai poli. Molto si parlò e per molti anni, negli Stati Uniti, di questa apertura polare, comunemente detta il “buco di Symmes”; il capitano aveva fatto distribuire dappertutto un volantino nel quale spiegava come stavano le cose e sollecitava l’aiuto di cento coraggiosi compagni disposti a esplorare con lui il buco settentrionale, largo parecchie migliaia di chilometri. Attraverso questo foro – e quello opposto – l’acqua del mare si riversa continuamente sulla prima sfera interna, anch’essa popolata, come le tre restanti, da animali e vegetali»; oppure Charles Carroll: «Secondo Charles Carroll di Saint Louis, autore de Il negro è una bestia (The Negro a Beast, 1900) e Chi tentò Eva? (The Tempter of Eve, 1902), il negro fu creato da Dio insieme agli animali al solo scopo che Adamo e i suoi discendenti non mancassero di camerieri, lavapiatti, lustrascarpe, addetti alle latrine e fornitori di servizi simili nel Giardino dell’Eden. Come gli altri mammiferi, il negro manifesta una specie di mente, qualcosa tra il cane e la scimmia, ma è completamente privo di anima». O ancora Roger Babson, lo scienziato che vuole combattere la legge di gravità, Klaus Nachtknecht che ipotizzava la salutare influenza dei vulcani e quindi costruì una casa nelle vicinanze di uno di essi e Charles Wentworth Littlefield, chirurgo, che con la sola forza della volontà riusciva a far cristallizzare il sale da cucina in forma di pollo o di altri animali piccoli; ma anche Aaron Rosenblum, utopista, che nel 1940 concepì l’ambizioso progetto di ricondurre al più presto l’umanità all’epoca elisabettiana.

Wilcock, che «era uomo di sterminate letture, laureato in ingegneria, possedeva vaste competenze scientifiche e filosofiche e parlava alla perfezione quattro lingue», dà in pasto al lettore una collezione di scienziati fasulli che non andrebbe presa sul serio. I personaggi, che propongono le teorie più assurde, tuttavia non vengono mai sbeffeggiati dallo scrittore, anzi, e questo crea una patina di humor nero che aleggia in tutto il libro e che lascia il lettore a metà tra lo sbigottimento e la risata incontrollata. Il poeta argentino del resto diceva: «Questo è molto caratteristico delle teorie che sono buffe: se si legge la storia della scienza si vede che, uno dopo l’altro, tutti i più grandi filosofi hanno proposto delle teorie che stanno sempre sull’orlo del ridicolo».

Pasolini sostenne che «quello che dà a questo libro un così forte sentimento di realtà è soprattutto il surrealismo: è sul surrealismo che Wilcock investe la vena comica con cui rende accettabile la patetica malvagità che gli fa identificare tutto il mondo con l’inferno». Bolaño, che da quest’opera trasse ispirazione per il suo libro La letteratura nazista in America, raccontò di come il libro di Wilcock gli avesse restituito l’allegria in momenti bui, «come riescono a farlo solo i capolavori della letteratura che sono al tempo stesso capolavori dello humor nero».

È fuori di dubbio che quest’opera, scritta – è bene ribadirlo – in una lingua non sua, ma che tuttavia lo scrittore maneggiava con una facilità impressionante, rappresenti un capolavoro da riscoprire. Come ricordava Francesca Lazzarato (una delle massime conoscitrici dell’opera di Wilcock) in uno splendido articolo comparso su ilmanifesto nel 2011, Ernesto Montequin, traduttore in spagnolo dell’opera di Wilcock, che da anni va raccogliendo materiali per una sua biografia, ha scritto: «Wilcock è un enigma di cui la letteratura argentina potrebbe vantarsi, se la letteratura italiana non fosse infinitamente più prodiga di enigmi e vanterie».

Wilcock ha ottenuto la cittadinanza italiana solo post-mortem, finendo purtroppo per scivolare nel dimenticatoio un po’ a causa della sua personalità schiva, un po’ per la sua intransigenza verso i costumi e la mediocrità della borghesia di quegli anni. Nonostante la sua manifesta qualità di prosatore i suoi romanzi in italiano non sono stati tradotti nella sua lingua madre fino agli anni Novanta, ed è rimasto famoso in patria solo per i libri pubblicati prima del trasferimento in Italia. Onore, quindi, ad Adelphi che sta ora ristampando le opere di quello che bisognerebbe cominciare a considerare uno dei migliori scrittori italiani.

(J.R. Wilcock, La sinagoga degli iconoclasti, Adelphi, 2014, pp. 216, euro 11)

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