“La grande bugia”
di Luke Brown

Un esordio letterario dedicato al mondo letterario stesso

di / 17 febbraio 2015

Mefedrone, cocaina, alcol, feste, editor e scrittori, amanti improbabili e amori irrimediabilmente romantici: questo il materiale con cui costruisce il suo romanzo d’esordio l’inglese Luke Brown, editor nella vita, autore di La grande bugia, da poco tradotto per Mondadori da Marco Rossari.

Una storia esuberante ma assai malinconica su un mondo, quello letterario,  che pare in realtà isterilirsi sempre più in una sorta di incurabile vacuità. I fatti narrati ne La grande bugia sembrano confermare l’impressione stringente che i libri vengano scritti più per potersi consentirsi vite come quelle qui descritte che per essere letti da qualcuno. Anzi, i libri rischiano di diventare proprio l’ultima cosa in questo gioco al massacro di esibizionismi, ambizioni incerte, menzogne programmatiche che di tragico (anche se qui ci scappa pure il morto) hanno solo l’assenza di ogni tragedia. Per gli amanti di una buona, brillante letteratura di intrattenimento potrebbe non essere un male.

Nel romanzo di Brown, i personaggi – nonostante l’accento patetico del narratore che giura di piangere spesso (preso com’è dal suo amore impossibile, finito, angosciato dalla gelosia anche a migliaia di chilometri di distanza) – vivono come in una bolla d’irrealtà che alleggerisce o rende tollerabile qualsiasi cosa, compresa la morte dello scrittore argentino al centro della vicenda, scrittore che il narratore aveva proprio il compito di tenere lontano dal rischio di farsi del male da solo. Nella sua concitata affabulazione, dovuta al senso di fine imminente che incombe nella festa perenne dei giorni, in evidente contrasto con il finto understatement di un personaggio che mostra di minimizzare i suoi sforzi creativi,  Liam ci mette al corrente di come il dissoluto scrittore argentino lasci questo mondo al culmine di una notte di bagordi. Peraltro, non è che l’editor scherzi quanto a sostanze stupefacenti (ciò che di esse ama, fra l’altro, è la loro capacità di produrre una “sospensione dell’incredulità”: come è noto, la locuzione di Coleridge serve a indicare quella condizione fondamentale di “abbandono” del lettore-spettatore senza la quale la fruizione di un’opera di finzione diventa impossibile).

Di editor protagonisti di romanzi, la narrativa – anche italiana – offre sempre più esempi; la cosa potrebbe non essere casuale, né probabilmente va vista come il povero risultato di macchine immaginative a corto di soluzioni. Ne La grande bugia la conferma è palese benché extratestuale: come detto Luke Brown è un editor nella vita. Viene quasi il sospetto di un percorso a suo modo inevitabile benché non programmatico: se la letteratura perde sempre più terreno, più pubblico, non stupisce che l’autoreferenzialità del mondo che la produce, la chiusura sempre più stretta dei suoi orizzonti intorno al mondo degli “addetti ai lavori”, lasci emergere figure prima più appartate (addirittura ignote al pubblico dei meri lettori), che da presenze occulte si sono trasformate in personalità sempre più scoperte e seducenti della scena letteraria. Fino a quest’ultimo passo: l’editor finisce per sopprimere le sue stesse creature per accaparrarsi tutta la scena. Il demiurgo discreto fagocita i suoi figli, nella realtà e nella finzione (a un certo punto, il narratore-editor scrive: «Noi odiavamo gli scrittori. Brutta gente. Spazzini. Piccolo avvoltoi famelici che piluccano nelle scuole di scrittura creativa…»). Personaggio, star, dentro e fuori il libro. Compreso quello che si scrive da sé.

(Luke Brown, La grande bugia, trad. di Marco Rossari, Mondadori 2015, pp. 252, € 18)

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LA CRITICA

Esordio divertente, questo di Luke Brown, editor inglese che forse medita di diventare scrittore a tempo pieno. Sospeso fra romanticismo e nichilismo, il poco attendibile narratore racconta un mondo di editor e scrittori in perenne crisi di realtà.

VOTO

7,5/10

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