“Foxcatcher”
di Bennett Miller

Un dramma umano e sportivo ispirato a una storia vera

di / 6 marzo 2015

La storia del team Foxcatcher è vera ed è uno dei drammi sportivi che maggiormente ha sconvolto gli Stati Uniti tra gli anni Ottanta e i Novanta. Un multimilionario egocentrico e fragile che sogna di diventare coach di una squadra di lotta libera, che parla da eroe della nazione e vuole essere chiamato «l’aquila d’oro degli Stati Uniti» e che finisce per uccidere uno dei suoi campioni. Il regista Bennett Miller è partito dalla storia vera per costruire una parabola amara sulla solitudine e l’ambizione, sull’insicurezza e il bisogno di riconoscimenti.

Mark Schultz è un lottatore libero medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1984. È uno dei massimi campioni mondiali della disciplina, ma la sua fama è appannata dal fratello Dave, anche lui vincitore della medaglia, suo mentore e allenatore. Hanno un rapporto intenso, Mark ha bisogno della guida di Dave e della sua esperienza, ma allo stesso tempo soffre il suo successo e il suo carisma, vorrebbe uno spicchio di palcoscenico su cui potere essere Mark Scultz, lottatore, e non solo il fratello di Dave. Un giorno, Mark viene contattato dall’entourage di John E. du Pont, miliardario erede di una delle più importanti famiglie degli Stati Uniti. Vuole avviare una squadra di lotta libera per partecipare alle Olimpiadi coreane del 1988 e vuole Mark a guidare la squadra.

Bennett Miller è un regista particolare. Si prende il suo tempo per fare i film. Ha esordito nel 1998 con il documentario The Cruise, poi ha lasciato passare sette anni prima di tornare con Truman Capote – A sangue freddo, e prima di L’arte di vincere ne sono passati altri sei. Foxcatcher era già pronto alla fine del 2013 (solo due anni tra un film e l’altro, un record), ma la Sony ha preferito posticiparne la distribuzione al 2014. È finito in concorso a Cannes, dove ha vinto il premio per il miglior regista ed è stato preso in considerazione per la Palma d’oro.

Non è insolito che i film di Miller incontrino l’apprezzamento delle giurie. I suoi tre film hanno sempre fatto il pieno di nomination dell’Academy. Sono state cinque per A sangue freddo, tra cui miglior film e miglior regia, sei per L’arte di vincere, tra cui di nuovo miglior film, cinque per Foxcatcher, e un’altra volta per la miglior regia. Sedici nomination in totale, un solo premio vinto: Philip Seymour Hoffman migliore attore protagonista per A sangue freddo.

Questa è una caratteristica tipica del cinema di Miller: gli attori e le loro performance. Ogni volta, tutti, danno il meglio. Ha la capacità di scegliere e di dirigere, di credere, magari, in attori non abituati al centro della scena. Hoffman, del resto, era soprattutto un comprimario, un caratterista, fino ad A sangue freddo; Jonah Hill era «il ciccione di Suxbad», poi è arrivato L’arte di vincere, un’inaspettata nomination e alla fine Scorsese e The Wolf of Wall Street; e se Steve Carell aveva già dimostrato di essere comunque un attore valido anche in ruoli brillanti, la trasformazione con naso posticcio di Foxcatcher ha stupito un po’ tutti.

Come regista, Miller preferisce sparire, lasciare ai suoi interpreti l’attenzione del pubblico. Non cerca di impostare uno stile che identifichi immediatamente il suo cinema: cambia sempre direttore della fotografia (questa volta è Greig Fraser), non ha attori feticcio, cambia gli sceneggiatori (e pure questi ogni volta vengono nominati).

Dan Frutterman è l’unico tra gli autori ad aver lavorato con Miller sia in A sangue freddo che in Foxcatcher (questa volta affiancato da E. Max Frye), e i due film infatti condividono molto di più di quanto possano avere in comune con L’arte di vincere. Se c’è però un tratto che accomuna il cinema di Miller, ecco quel tratto si può trovare nelle storie che racconta, nei personaggi che sceglie come centrali. Sono personaggi reali, sempre, di successo o comunque noti, ma perennemente alla ricerca di un riconoscimento in più, sempre pronti a sentirsi inadeguati o irrealizzati nella loro posizioni, pronti a invidiare chi hanno più vicino che è riuscito a fare quel passo in più.

In Foxcatcher Mark Schultz soffre nell’essere solo il fratello di Dave. Lo ama ma non gli basta, ha bisogno di essere riconosciuto. Allo stesso tempo ha paura del mondo senza di lui e quando il miliardario du Pont lo chiama è eccitato e terrorizzato all’idea di abbandonare le sue misere certezze per le ricche possibilità che gli vengono offerte. Du Pont, dall’altra parte, è l’erede di un impero di cui non gli importa nulla. Cerca il consenso della madre sentendosi inferiore ai suoi cavalli, è convinto di avere un ruolo di patriota e salvatore della nazione, si racconta filantropo e pentatleta, raffinato ornitologo ed esperto di francobolli. Mark e John si incontrano proprio in questa solitudine di emarginati dalla gloria, è il loro essere satelliti di qualcuno di più grande che li avvicina. Sembrano simili, ma non lo sono. Perché Mark è comunque un puro, nella sua semplicità. Soffre Dave e la sua maggiore facilità nell’affrontare la vita, ma è sempre pronto a condividere tutto, a riconoscere agli altri i meriti. Ha bisogno di essere guidato, quando dice che du Pont è come un mentore, come il padre che non ha mai avuto, lo pensa davvero, anche se sta leggendo un discorso scritto dallo stesso du Pont. John, al contrario, sfrutta gli altri per costruire l’immagine di sé che vuole proiettare all’esterno e con cui spera di conquistare quella madre severa e fredda che lo schiaccia, che non capisce la sua passione per il wrestling, che lo tratta ancora come un bambino. Trascina Mark in una spirale che lo allontana dalla disciplina del lottatore e quando si rende conto che non è più in grado di dargli quello che vuole – le medaglie, i successi – lo scarica per chiamare Dave. Per poi tornare a rimpiangere Mark, quando capisce che Dave non sarà mai un amico, o quell’erede che sogna di formare.

Mark e John sono uniti dallo sconfinato senso di inadeguatezza che li condiziona. La loro ambizione va oltre l’apparente realizzazione della medaglia da vincere; vogliono uscire da quel cono grigio in cui negli Stati Uniti vengono confinati i losers, i perdenti, anche quelli che all’apparenza non lo sono, per diventare vincitori sulla vita e sulle proprie aspettative.

Andando oltre la semplice ricostruzione biografica, Bennett Miller è riuscito a fare di Foxcatcher un film di raffinata e tesa psicologia relazionale. È una storia molto americana (e il sottotitolo italiano ha tenuto a specificarlo), girata con una lentezza calcolata con sapienza capace di generare tensione fino all’esplosione finale. Lo aiutano i tre interpreti: Steve Carell come du Pont, Mark Ruffalo nei panni di Dave Schultz e Channing Tatum che dà corpo e fragilità a Mark (unico non candidato agli Oscar, chissà perché). C’è anche un’irriconoscibile Sienna Miller.

(Foxcatcher – Una storia americana, di Bennett Miller, 2014, drammatico, 138’)

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LA CRITICA

La storia vera dei fratelli Schultz è solo un pretesto: Foxcatcher è una storia cupa sul potere distruttivo dell’ambizione e dell’insicurezza. Al suo terzo film di finzione, Bennett Miller continua a dimostrare di essere un regista che sa andare oltre le storie alla ricerca degli aspetti più nascosti delle fragilità umane.

VOTO

7,5/10

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