“Il Regno”
di Emmanuel Carrère

Un romanzo a più livelli, in cui Carrère parla di sé, e insieme di molto, molto altro

di / 6 marzo 2015

Un agnostico che non si definisce ateo solo perché non è «abbastanza credente per esserlo» a un certo punto della vita cade in depressione; questa disperazione lo avvicina al cattolicesimo. Accade a Emmanuel Carrère che ne rende conto nel suo ultimo libro, Il Regno, ora leggibile nella traduzione di Francesco Bergamasco, al solito per Adelphi.

Libro a più strati, testo che contiene il commento al testo, le premesse che lo costituiscono, le quali sono frammenti di un’autobiografia che contiene ulteriori chiose ai diari di un suo particolare momento, quello appunto – tre anni di vita – della temporanea conversione (soprattutto commenti al Vangelo di Giovanni). Non si pensi a un romanzo postmoderno – che in Carrère la stanca definizione verrebbe elusa già dalla concretezza intelligente quanto terragna della scrittura che ne ha fatto uno dei più stimolanti scrittori europei degli ultimi anni. Quella di Carrère appare piuttosto un’inquietudine dell’a latere, che se da una parte sposta di continuo il punto di vista e complica la narrazione (ne complica il senso) dall’altro intensifica il contrasto fra verità e ambiguità di una scrittura ben serrata sulle cose ma soprattutto sui personaggi – il suo compreso.

Nella prima parte il rischio del gioco di specchi si esercita attraverso un sarcasmo faticosamente tenuto a bada (e lo comprendiamo assai bene) verso il se stesso che a un certo punto della vita aderisce alla fede cattolica. Carrère difatti si rilegge con imbarazzo. I suoi propositi di convertito imminente – recuperati nei vecchi appunti – gli suonano falsi (e tali arrivano in effetti al lettore scettico) benché al tempo fossero stati il frutto di un approccio «sincero». Lo scrittore approda in chiesa dopo le inutili sedute psicoanalitiche nelle quali ovviamente la sola cosa che gli interessava era «mettere in scacco l’analista». Il passo decisivo è proprio quello che di fronte allo strizzacervelli non gli è mai riuscito: lasciarsi andare (l’illuminazione gli viene da un passo di Giovanni riguardante Gesù e Pietro). L’abbandono, a rileggersi ora, null’altro gli appare che autosuggestione, crollo da metodo Couè, una retorica esclamativa che al momento invece sentiva come nobile e autentica, e faceva piazza pulita dell’illuminista sarcastico (così parigino…) che era sempre stato. Ancora una volta, il lettore scettico immagina la difficoltà che il romanziere ha dovuto affrontare per tenere in vita l’ambiguità necessaria a una buona storia – il racconto di una conversione fatta di giornate a messa, preghiere, confronto con persone che lo invitano a prendere sul serio la tentazione cristiana: e l’accostamento con una personale congerie di fantasmi, compreso quello dell’amato Philip Dick (anch’egli sensibilissimo al tema – ma proprio la stesura di un libro su di lui contribuirà a riallontanarlo dalla fede).

Il corpo centrale (e imponente) de Il Regno si costruisce come una sorta di romanzo sulle origini del Cristianesimo. È un lavoro poderoso, affascinante, di riscrittura delle scaturigini di una visione del mondo che cambierà la storia umana. Accanto all’evangelista Luca, la figura fondamentale appare quella di Paolo – «un vero cafone», lo definisce a un certo punto Carrère, perché non sa esimersi dal rilevare di continuo quanto egli dipenda solo da se stesso, quanto si sporchi le mani; ma un genio anche, a suo modo, il vero fondatore del cristianesimo. La personalità, sua, ma anche quella di Luca (Il Regno è anche un libro su come si scrive un libro) e degli altri che compaiono nella narrazione (da Pietro a Giacomo al rabbino Filone) è investigata con l’acribia che è solita all’autore de L’avversario; la narrazione si fa trascinante, le vicende del cristianesimo delle origini vengono lette e riscritte a partire della stessa matrice letteraria dei Vangeli ma scavando in una possibile verità storica che ci dica chi fossero (e come agissero) davvero Paolo o Luca, o i galati o gli ateniesi che dei deliri del fanatico Paolo proprio non vogliono saperne.

Ora, se Carrère continua a vedere nel cristianesimo (non nell’istituzione chiesastica) il segno di una pur stravagante rivoluzione («i primi saranno gli ultimi»), il libro potrebbe irritare i credenti: si pensi solo alla tentazione comica che Carrère non sa o non vuole tenere a bada del tutto (sia nella parte autobiografica che in quella “storica”, laddove la piccola setta ebraica che cambierà i destini del mondo è rappresentata come una banda – verrebbe da dire – di poveri cristi, esaltati, fanatici e discretamente invidiosi). D’altra parte, il lettore scettico, più volte evocato sopra, pur non ignorando gli strappi e le forzature di un lavoro non semplice da tenere insieme,  troverà diversi motivi per leggere Il Regno con piacere.

(Emmanuel Carrère, Il Regno, trad. di Francesco Bergamasco, Adelphi, 2015, pp. 427, euro 22)

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LA CRITICA

Libro diseguale ma pieno di grandi momenti, riscrive la storia delle origini del cristianesimo intrecciandola con l’esperienza personale dell’autore.

VOTO

7,5/10

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