“Blackhat”
di Michael Mann

Un thriller informatico dall’autore di Miami Vice

di / 10 marzo 2015

Michael Mann è uno dei più grandi innovatori del cinema contemporaneo, classico e solido nelle sue strutture narrative, sempre alla ricerca della novità di stile. Dieci film in trentatré anni, uno ogni tre anni, in media, con due buchi di sei. Ha dichiarato che fa solo film in cui crede fino in fondo. Negli ultimi vent’anni ci sono stati film come Heat, InsiderAlìCollateral. Quando un regista così recluta una stella in ascesa come Chris Hemsworth – il Thor della Marvel, ma anche James Hunt nel Rush di Ron Howard, ed è lì che Mann lo ha notato – è lecito aspettarsi un film di grande impatto. Con Blackhat si finisce per aspettare a vuoto.

I servizi segreti statunitensi e coreani decidono di collaborare per fermare un’organizzazione di cyber criminali che ha causato un grosso incidente in una centrale nucleare vicino Hong Kong (si sono infiltrati nel sistema informatico e hanno alterato il meccanismo di raffreddamento). Pochi giorni dopo, il valore della soia nella borsa di Chicago sale alle stelle e qualcuno riesce a ricavarne parecchi utili. È un altro attacco informatico, probabilmente a opera dello stesso gruppo. C’è solo un uomo che può fermare gli hacker, il capitano Dawai, esperto in sistemi informatici del governo cinese, lo conosce bene. Si tratta di Nick Hathaway, studiavano insieme al MIT. Solo che adesso Hathaway è in carcere per una truffa di carte di credito. Gli viene concessa una scelta: se collabora avrà la libertà. Sceglie di collaborare, ovviamente, e con Dawai, la sorella di lui (anche lei esperta di informatica) e gli agenti dell’FBI si mette sulle tracce degli hacker.

Blackhat di Michael Mann si apre con una lunga sequenza di quasi cinque minuti girata quasi completamente in computer graphic. È un flusso di informazioni che dal computer degli hacker raggiunge il sistema informatico della centrale nucleare a Hong Kong e causa il guasto al sistema di areazione. È, soprattutto, una delle sequenze più lunghe mai realizzate in CGI, una delle più visionarie nel suo non essere immediatamente comprensibile da parte dello spettatore (i circuiti sembrano una specie di città vista dall’alto, fa un po’ Tron, un po’ Matrix). È, ancora, la conferma della dichiarazione di intenti del cinema di Mann: quello che conta, quello che ricerca, è sempre il passo in più sulla strada della sperimentazione, dell’innovazione tecnica.

Proprio per questo, Blackhat finisce per trascurare un’evoluzione ordinata del suo intreccio, limitando il più possibile i dialoghi e i momenti narrativi per concentrare invece il più possibile l’azione e, più in generale, il movimento. Perché come le informazioni che viaggiano da un computer all’altro nella sequenza iniziale, i protagonisti di Mann si muovono veloci per il mondo – aggirando con estrema facilità qualsiasi tipo di barriera doganale – sulle tracce dei criminali che inseguono.

Il consueto cinema metropolitano del padre di Miami Vice si apre questa volta a un Oriente immerso negli abituali colori notturni e digitali degli spazi urbani fotografati, questa volta, da Stuart Dryburgh (prima collaborazione), e l’immersione tecnologica autorizza la memoria a richiamare Rick Deckard e la fantascienza di Blade Runner.

Tra questi spazi verticali assoluti si muove Hathaway, eroe classico del cinema di Mann, ancorato a un proprio preciso codice morale che ne condiziona le scelte. Anche se è un criminale, Hathaway è comunque un personaggio etico, fedele all’incarico da cui dipende la sua libertà anche nel momento in cui potrebbe trovare la fuga. Il misterioso pirata informatico a cui dà la caccia è il suo specchio esatto. È un altro elemento classico del cinema di Mann in cui l’eroe ha sempre una precisa controparte, un contraltare morale che si comporta all’opposto. Qui è invisibile, un hacker, anzi un black hat (cioè un esperto di informatica che usa le sue conoscenze per fini criminali), che si è appropriato del codice che Hathaway aveva scritto all’università con Dawai per usarlo contro il mondo.

Inserendolo nella filmografia recente di Michael Mann, Blackhat continua quella “rivoluzione digitale” inaugurata nel 2004 con Collateral (primo film prodotto a Hollywood girate interamente con telecamere digitali) proseguendo la ricerca estetica e tecnica di uno dei più innovativi cineasti di oggi. In questa ricerca continua della velocità, del nuovo e dell’impeto estetico, Mann trascura fino a quasi dimenticarsi, però, gli elementi fondamentali di ogni film. Il cinema in generale trova un limite piuttosto marcato quando cerca di rappresentare il mondo informatico, quando deve, cioè, tradurre un linguaggio di strisce di codice e schermi di computer in qualcosa di dinamico e veloce. In Blackhat c’è il consueto repertorio di dialoghi improbabili davanti ai monitor, di mani velocissime sulle tastiere e download da completare in condizioni critiche, ma non è solo questo il limite del film di Mann.

Appoggiandosi su una trama piatta, senza uno sviluppo ordinato e troppo spesso complessa da seguire, Blackhat  non riesce ad essere molto altro che un esercizio di stile per l’idea di cinema del suo regista. Ci sono scene di azione e di combattimento notevoli (quella al ristorante coreano più di altre), c’è, come si è già detto, un’idea estetica che trova nuovi modi di declinarsi, ma c’è anche una trama sentimentale veramente buttata lì per fare volume, una serie di personaggi comprimari che sono strutturati quel tanto che basta per risultare passabili, una generale trascuratezza della coerenza narrativa in favore dello spettacolo.

È un limite, e un peccato, perché da solo tutto il mestiere innovativo di Mann, per quanto enorme, non basta a rendere Blackhat un film di piena potenza. Sarebbe stato interessante, visto il tema e il momento di uscita (negli Stati Uniti ha fatto il suo debutto a gennaio), se si fosse tentata una maggiore lettura critica del contemporaneo attraverso il film. Si parla di attacchi hacker, si parla di NSA e di privacy, ma neanche per un istante viene suggerito un collegamento con la contemporaneità.

(Blackhat, di Michael Mann, 2015, azione, 135’)

 

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LA CRITICA

Il cinema di Mann va preso per quello che è: immagine. Il resto – trama, dialoghi – sono sempre in secondo piano. C’è una tipizzazione fissa dei personaggi improntata su una solitudine malinconica di stampo metropolitano, e torna anche in Blackhat. Per il resto, però, c’è veramente poco.

VOTO

5,5/10

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effe

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